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L'OBBEDIENZA DEL MONACO







 
22. IN EGITTO GLI UFFICI DESTINATI AL SERVIZIO DELLA COMUNITÀ SONO PERMANENTI, E NON DIVISI A SETTIMANE ALTERNATE


Tutto questo va riferito, secondo quanto abbiamo già premesso fin dall’inizio, alle consuetudini diffuse in tutto l’Oriente, e tali norme noi dichiariamo che dovrebbero necessariamente essere adottate anche nelle nostre parti. Tuttavia presso gli egiziani, per i quali la massima delle funzioni è quella del lavoro, non è in uso il succedersi vicendevole e distributivo delle settimane, affinché, sotto il pretesto di quel servizio, non vengano tutti distolti dall’attendere alla loro abituale operosità; invece quella funzione di dispensiere e di cuciniere viene affidata ad uno solo dei fratelli, riconosciuto molto esperto, ed egli la esercita in continuità, finché le forze e l’età glielo consentiranno. Di fatto però egli non deve sostenere un grande peso fisico, perché presso gli egiziani non è richiesta una grande cura allo scopo di preparare e cuocere le varie vivande: essi si nutrono soprattutto di cibi secchi e crudi. Sono di loro gradimento le foglie di porri, tagliate a turno ogni mese, come pure certe erbe, fritture, salse, olive e piccoli pesci salati, da essi chiamati maenomenia.

23. L’OBBEDIENZA DEL MONACO GIOVANNI


E poiché questo libro, scritto intorno alle «Istituzioni cenobitiche», è diretto a chi intende rinunciare al mondo, e proprio perché con questa guida, una volta introdotto alla vera umiltà e all’obbedienza perfetta, egli possa aspirare alle vette delle altre virtù, io ritengo necessario richiamare, a modo d’esempio, come abbiamo già promesso, certi comportamenti degli anziani, ed è proprio per questa loro condotta che essi si segnalarono particolarmente in questa virtù. Tra un numero di esempi molto grande noi faremo una scelta ridotta perché, a quanti aspirano a mete più alte, non solo derivi da essi un incitamento per una vita perfetta, ma sia reso manifesto anche il modello, a cui tendere. Perciò, per non allungare troppo il contenuto di questa nostra opera, di mezzo a un numero così grande di padri anziani, noi non ne sceglieremo se non due o tre, e collocheremo in primo piano l’abate Giovanni (Nota: Giovanni di Licopoli, grande asceta, passato alla storia col nome di «veggente della Tebaide» (300 c. - 394)). Egli visse nei pressi di Lieo, un sobborgo della Tebaide. Elevato per la virtù della sua obbedienza fino a ricevere il dono della profezia, divenne così famoso davanti a tutto il mondo da renderlo celebre, per questo suo merito, perfino agli occhi dei re di questa terra. E infatti fu proprio allora che, pur essendo la sua dimora, come già abbiamo detto, nelle estreme parti della Tebaide, l’imperatore Teodosio non ardiva affrontare le guerre contro i suoi prepotenti usurpatori, se prima non era animato dagli oracoli e dalle risposte di lui. E così, confidando nelle sue parole come se gli fossero derivate dal cielo, egli riportò le sue vittorie contro i nemici e in guerre pressoché disperate.


24. OBBEDIENZA UMILE


1.    Questo beato Giovanni, a cominciare dalla sua giovinezza fino agli anni dell’età avanzata, rimase al servizio di un monaco anziano fino agli ultimi giorni, in cui quello visse, e durò in quel servizio con tale perseverante umiltà che la sua obbediente sottomissione destò perfino in quell’anziano uno straordinario stupore. E fu proprio lui a voler andare a fondo per vedere se tutta quella virtù proveniva da vera fede e da profonda semplicità di cuore, oppure se essa era un risultato d’affettazione e praticata in qualche modo per accaparrarsi la stima del suo superiore. E allora, volendo rendersene più sicuro, cominciò a ordinargli con certa frequenza l’esecuzione di parecchie cose superflue o poco necessarie, e perfino impossibili.


2.    Per questo io ora proporrò tre esempi, per i quali possa divenire manifesta a quanti desiderano conoscere la sincerità assoluta del suo spirito e della sua sottomissione. Egli dunque scelse dalla sua legnaia un bastone di legno secco, tagliato da tempo e messo là per essere destinato al fuoco. E poiché era mancata l’occasione di bruciarlo, non soltanto si era inaridito, ma, col passare del tempo, si era ridotto in uno stato marcescente. Dopo averlo piantato in terra davanti ai suoi occhi, gli ordinò di portare acqua e di annaffiarlo due volte al giorno in modo che l’umidità, così giornalmente assicurata, facesse crescere le radici ed esso ridivenisse una pianta viva. Una volta divenuto albero come era la sua forma antica ed estesi i suoi rami, avrebbe offerto un grande godimento agli occhi e molta ombra a quanti, nell’imperversare del caldo estivo, avrebbero cercato riparo sotto di esso.


3.    Il giovane accolse quell’ordine con la sua abituale venerazione, senza minimamente far conto dell’assurdità di quell’imposizione, e l’eseguì fedelmente ogni giorno: vi portò l’acqua con continuità, pur dovendola attingere a due miglia di distanza, e non lo distolsero dall’annaffiare quel pezzo di legno e dall’eseguire quel comando per tutta la durata dell’anno né l’infermità del corpo né la ricorrenza delle festività né l’urgenza di qualche occupazione che lo scusasse legittimamente dall’eseguire quell’ordine, e, infine, neppure il sopravvenire dell’asprezza dell’inverno.

4. Il monaco anziano, in silenzio e segretamente, ebbe modo di osservare e di constatare ogni giorno la sua costante fedeltà e come egli adempisse il suo comando con la semplice adesione del cuore quasi fosse un ordine venutogli da Dio, senza mai mutare l’espressione del volto o discutere le ragioni di quell’imposizione. E allora, pienamente convinto della sincerità della sua umiltà e della sua obbedienza, e, nel tempo stesso, mosso a pietà per quella sua fatica sostenuta nel corso di tutto un anno con tanta devota sottomissione, avvicinatosi a quell’arido pezzo di legno, esclamò: «Quest’albero ha messo o non ha messo le radici?». Avendo il giovane risposto di non saperlo, il vecchio, quasi volesse rendersi conto della realtà e così assicurarsi se già quel legno si sostenesse sulle sue proprie radici, lo estrasse davanti ai suoi occhi con ben poco sforzo, e così, gettatolo via e lontano, gli ordinò che da quel momento non pensasse più ad annaffiarlo.


25. OBBEDIENZA CIECA


Intanto il giovane, formatosi in esercizi di questo genere, ogni giorno più cresceva in questa virtù della soggezione, e risplendeva la grazia della sua umiltà e il soave profumo della sua obbedienza per tutti i monasteri. Ora avvenne che alcuni dei fratelli, avendo sentito parlare delle sue prove e della sua edificazione, vennero fino a quell’anziano per ammirare quella sottomissione, di cui avevano udito l’esaltazione. Egli allora lo chiamò all’improvviso e gli diede quest’ordine: «Sali qui su, prendi il vaso dell’olio e gettalo fuori della finestra». Si tenga presente che il vaso dell’olio nelle regioni del deserto rappresentava l’unica e tenuissima fonte di vero nutrimento per i monaci e per gli ospiti. Egli dunque, montato in alto, gettò dalla finestra il vaso che andò in pezzi, cadendo a terra; il giovane però lo fece senza badare neppure per poco all’assurdità di quel comando e senza esitare ad eseguirlo. Eppure c’erano dei motivi in contrario: il bisogno dell’olio, presente ogni giorno; le malattie, la mancanza del denaro occorrente per comprarlo, le estreme difficoltà di quello squallido deserto, nel quale, anche quando c’era disponibilità di denaro, non era possibile trovare e compensare la perdita di quel liquido così prezioso.

26.    OBBEDIENZA FIDUCIOSA

Ma vi furono anche altri, tra i fratelli, desiderosi di edificarsi sull’esempio della sua obbedienza. Il monaco anziano lo fece venire e gli diede quest’ordine: «Corri, Giovanni, e fa rotolare quel masso al più presto fino qui!». Si trattava di un macigno di grande mole che neppure un gran numero di uomini avrebbe potuto smuovere. Egli però, immediatamente, accostandovi ora il capo ora tutto il corpo, cercava di farlo smuovere con tali e ripetuti sforzi che il sudore, già grondante da tutte le sue membra, bagnava non solo il suo vestito, ma dal suo capo colava perfino su quel masso. E anche in quella circostanza egli non misurò l’impossibilità dell’imposizione e della sua esecuzione per la riverenza che egli nutriva per il suo superiore e per la sincerità spontanea della sua obbedienza, grazie alla quale egli era convinto, con estrema fiducia, che l’anziano monaco non poteva ordinargli nulla che fosse invano e senza ragione.


27.    UMILTÀ E OBBEDIENZA DELL’ABATE MUZIO


1. Intorno all’abate Giovanni bastino, per ora, fra le molte, le poche notizie ora riferite. Adesso narrerò un fatto intorno all’abate Muzio, ben degno di essere ricordato. Egli dunque, deciso a rinunciare al mondo, si pose davanti alla porta del monastero e vi rimase con tanta irremovibile perseveranza, finché, contro ogni tradizione dei monasteri, non vi fu accolto assieme al figlioletto di circa otto anni. Quando finalmente furono ricevuti, vennero subito assegnati non solo a maestri differenti, ma anche separati di cella, affinché il padre, alla vista continua del figlioletto, non pensasse, dopo aver rinunciato a tutti i suoi beni e ad ogni umano attaccamento, che gli restava almeno il figlio suo. Ne risultava così che, siccome egli era persuaso di non essere più, in nessun modo, ancora ricco, così pure avrebbe dovuto egualmente dimenticare di essere ancora padre.

2.    E per provare con più fondamento la sua perseveranza e constatare se egli tenesse in maggior conto l’amore del sangue e del suo cuore oppure l’obbedienza e la mortificazione di Cristo che ognuno, dopo aver rinunciato al mondo, deve preferire a tutto per suo amore, intenzionalmente il bimbo veniva lasciato in abbandono, rivestito di panni sdrusciti e non di indumenti adatti, e così trasandato e perfino maleodorante da destare quasi più disgusto che attrazione agli occhi del padre ogni volta che il bimbo appariva al suo sguardo. In più egli veniva esposto alle percosse e agli schiaffi di parecchi, e il padre, non poche volte, vedeva infliggere quel trattamento al suo bambino innocente sotto i propri occhi e senza alcun motivo, sicché non gli avvenne mai di vedere il volto del bambino se non con le guance segnate dallo scorrere grigio delle lacrime.


3.    Per quanto il bambino venisse tutti i giorni trattato in quel modo sotto gli occhi stessi del padre, il suo cuore tuttavia, per amore di Cristo e per la virtù dell’obbedienza, si mantenne sempre fermo e incrollabile. Non lo considerava più figlio suo, poiché, assieme alla propria vita, egli l’aveva offerto a Cristo, e neppure si preoccupava delle ingiurie da lui sofferte, ma piuttosto ne godeva, persuaso che esse non sono mai tollerate inutilmente, poco curandosi così delle lacrime di lui e avendo a cuore di preferenza la propria umiltà e la propria perfezione. Il superiore del cenobio considerava la fermezza del suo spirito e la sua rigida osservanza, e volle perciò far prova fino in fondo della sua costanza. Così un giorno, vedendo il bambino in preda al pianto, simulando un’improvvisa irritazione nei suoi confronti, comandò al padre di prenderlo e di gettarlo nel fiume.

4. Quegli allora, come se quel comando gli fosse stato dato dal Signore, subito, di corsa, andò a prendere il figlio tra le proprie braccia e si diresse alla sponda del fiume per gettarlo dentro. E tutto questo egli l’avrebbe certamente portato a termine, dato il fervore della sua fede e della sua obbedienza, se alcuni fratelli, intenzionalmente già prima appostati sulla riva del fiume, non avessero strappato in certo qual modo dall’alveo dell’acqua il bambino gettatovi dentro: così fu impedito che fosse condotta a termine l’esecuzione di quell’ordine, a cui il padre s’era disposto con la sua obbedienza e con la sua devozione.


28.    COME ABRAMO


Questa sua fede e questa sua devozione tornarono talmente gradite a Dio che ben presto esse vennero comprovate da una testimonianza divina. Venne infatti immediatamente rivelato al monaco anziano che quel padre, con quella sua obbedienza, aveva adempiuto un’opera simile a quella di Abramo (cf. Gen 22).


Il vecchio, già abate del cenobio, stando ormai, dopo breve tempo, per lasciare la dimora di questo mondo per raggiungere Cristo, lo propose a tutti i fratelli come suo successore, e così lo lasciò abate del monastero.


29.    L’ESEMPIO DI UN GIOVANE MONACO, DI GRANDE FAMIGLIA


E ora non lasceremo passare sotto silenzio quanto riguarda un fratello, da noi stessi conosciuto, appartenente a una famiglia di gran nome secondo le gerarchie di questo nostro mondo. Il padre suo era conte e molto ricco; egli era stato perciò educato nelle arti liberali con un’istruzione tutt’altro che ordinaria. Lasciati i parenti, s’era rifugiato in un monastero. Per rendersi conto dell’umiltà del suo spirito e dell’ardore della sua fede il superiore, assai per tempo, gli diede ordine di caricarsi sulle spalle ben dieci sporte, che però non erano necessariamente destinate alla vendita, e con quelle di recarsi per le pubbliche piazze. Aveva anche imposto questa condizione, per obbligarlo a rimanere per più lungo tempo in quella situazione di disagio: se, per caso, si fosse presentato anche un solo acquirente disposto a comprare le sporte tutte quante, egli doveva rifiutarsi, perché doveva venderle, a chi ne faceva richiesta, una per volta. Egli compì quell’incarico con tutta remissività e, postasi sotto i piedi, per il nome e il desiderio di Cristo, ogni ripugnanza, addossatesi sulle spalle le sporte, riuscì a venderle al prezzo stabilito e a riportarne il denaro al monastero. Non si sentì affatto mortificato dalla novità di quell’incarico umiliante e inconsueto, e non diede peso all’indegnità del fatto, alla nobiltà dei suoi natali e alla meschinità di quella vendita, pur di raggiungere, con la grazia dell’obbedienza, l’umiltà di Cristo, che costituisce la vera nobiltà.


30. LA VITA DELL’ABATE PINUFIO


1. Le giuste proporzioni dell’opera presente ci obbligherebbero ormai a guardarne il termine; tuttavia il bene dell’obbedienza, che tra tutte le virtù tiene il primato, non ci permette di passare del tutto sotto silenzio il comportamento di coloro che divennero illustri per la pratica di questa virtù. Pertanto, moderando giustamente l’una e l’altra di queste esigenze, vale a dire, procurando di tener presente l’urgenza della brevità e, nel tempo stesso, venendo incontro alle aspirazioni e ai vantaggi dei più avanzati, esporremo ancora almeno un unico esempio di umiltà. Esso è ricavato non dalla vita di un principiante, ma da un monaco giunto alla perfezione e, per di più, abate di un monastero. Il richiamo varrà, con la sua lettura, non soltanto a istruire i più giovani, ma anche a incoraggiare gli anziani a praticare in modo perfetto la virtù dell’umiltà.


2.    Abbiamo veduto di persona l’abate Pinufio. Quando ancora egli era prete in un grande monastero dell’Egitto, posto non lontano dalla città di Panefisi, era divenuto oggetto di grande venerazione per il rispetto dovuto alla sua vita, alla sua età e alla stessa dignità del suo sacerdozio. Perciò, vedendo che per questi motivi non gli riusciva di porre in atto l’umiltà, tanto desiderata dall’ardore del suo spirito, e nemmeno di avanzare nell’esercizio della sottomissione, a cui aspirava, fuggì nascostamente dal monastero e si ritirò tutto solo nelle zone più remote della Tebaide. Giunto là, depose l’abito proprio dei monaci e si rivestì di indumenti secolari. Quindi raggiunse il monastero di Tabennesi che egli sapeva essere di osservanza più rigorosa degli altri: era persuaso, in questo modo, di passare ignorato per la lontananza del posto, e di poter facilmente occultarsi per la vastità del monastero e per il gran numero dei fratelli.


3.    Là egli dimorò per un periodo abbastanza lungo alle porte del monastero, prostrandosi umilmente alle ginocchia di tutti i fratelli e chiedendo con preghiere insistenti di essere accolto. Finalmente venne ricevuto non senza molte riserve, come se lui, ormai vecchio e tardo, giunto ormai agli ultimi anni della vita, chiedesse l’ingresso al monastero in quell’età in cui non è più possibile compiacere alle proprie passioni. I fratelli erano inoltre convinti che egli non aspirasse alla vita monastica perché indotto da motivi religiosi, ma costretto soltanto dai bisogni dettati dalla fame e dall’indigenza, e perciò gli venne assegnata la cura e la custodia del giardino, come a un vecchio ormai del tutto inadatto ad ogni lavoro.


4.    Questo servizio egli lo compì sotto la guida di un altro fratello di lui più giovane, al quale egli era stato affidato, ed era a lui del tutto sottomesso, coltivando così la desiderata virtù dell’umiltà con tanta obbedienza che non solo accudiva alle cure del giardino tutti i giorni e con tutta dedizione, ma si dedicava pure a tutti quei servizi che a tutti gli altri riuscivano difficili e avvilenti, e che perciò venivano considerati pressoché ripugnanti. Per di più, anche in piena notte, egli si alzava nascostamente e compiva molti servizi senza che ci fosse alcun testimone e che alcuno se ne avvedesse grazie a quell’oscurità, e così nessuno aveva modo di sorprendere e di conoscere chi avesse compiuto quel lavoro. Rimase nascosto in quella dimora per ben tre anni. Intanto però certi fratelli erano partiti per le varie parti di tutto l’Egitto allo scopo di ricercarlo, e così, finalmente, fu ravvisato da uno di loro che proveniva dalle regioni dell’Egitto, ma a stento poté essere riconosciuto a causa dell’umiltà del suo vestito e per la bassezza del lavoro, al quale era stato addetto.

5.    Egli infatti, tutto curvo, con in mano un sarchiello, stava liberando dalla terra le radici degli ortaggi e poi, portandovi sulle sue spalle del letame, lo stendeva su di quelle. Il fratello, in vista di quel fatto, dopo aver esitato a lungo senza riuscire a riconoscerlo, decise finalmente di farsi più vicino e così poté osservare non solo più attentamente il suo volto, ma anche udire distinta-mente il suono della sua voce. Allora egli cadde all’istante ai suoi piedi. Dapprima suscitò, per questo suo gesto, uno straordinario stupore in quanti erano lì presenti, i quali si domandavano perché si comportasse così nei confronti di uno, considerato in mezzo a loro come un novizio e come l’ultimo per essere da ben poco tempo uscito dalla vita del secolo. Ma subito dopo essi furono presi da una meraviglia ben più grande, quando egli rivelò il nome di lui: infatti anche presso di loro quel nome era assai ben noto, circondato com’era da grande opinione.


6.    Tutti i fratelli implorarono il suo perdono per la loro passata ignoranza, poiché per tutto quel tempo essi l’avevano considerato e tenuto come uno dei giovani e dei novizi. E allora, per quanto egli fosse riluttante e in pianto perché si considerava defraudato, per l’invidia diabolica, della vita e dell’umiltà da lui lungamente cercata e finalmente e gioiosamente raggiunta, senza per questo aver meritato di finire la propria vita in quella sotto-missione che gli era riuscito di conseguire, i fratelli lo ricondussero al loro monastero e lo custodirono con straordinaria vigilanza perché egli, di nuovo e in modo simile, non fuggisse in qualche altro luogo.


31.    SECONDA FUGA DI PINUFIO


Dimorò colà ancora per poco tempo. Ripreso nuovamente dallo stesso ardore desideroso di umiltà, approfittando del silenzio della notte, riuscì a fuggire per raggiungere non già qualche zona vicina, ma regioni sconosciute e straniere, separate da grandi distanze. E così, salito su di una nave, cercò di raggiungere i territori della Palestina, credendo di potervi dimorare più nascosto se fosse riuscito a portarsi in luoghi, nei quali perfino il suo nome mai era stato udito. Quando vi fu arrivato, subito raggiunse il nostro monastero, situato non lontano dalla grotta, nella quale s’era degnato di nascere dalla Vergine nostro Signore Gesù Cristo. Ma non poté rimanervi nascosto se non per un tempo molto breve, conformemente alla sentenza del Signore, allorché parla di una «città edificata sopra un monte» (Mt 5, 14). Infatti alcuni fratelli, giunti fino ai Luoghi Santi dall’Egitto per pregare, lo riconobbero e a forza di preghiere e di suppliche riuscirono a ricondurlo al loro monastero.

32.    LE NORME DETTATE DALL’ABATE PINUFIO


E ora, per quella confidenza da noi goduta con quel padre ormai anziano, nel tempo in cui egli era venuto presso il nostro monastero, noi andammo in cerca di lui, dopo questi fatti, fino in Egitto e con estrema fiducia. Fu proprio nel tempo in cui egli stava impartendo una serie di precetti esortativi a un giovane che in presenza nostra egli intendeva accogliere nel suo monastero. Io ritengo che da tali esortazioni si possa ricavare qualche utile istruzione e perciò mi propongo di includerla in questo nostro opuscolo.


«Tu, egli cominciò a dire (rivolgendosi al giovane) ti sei reso conto di quanti giorni sei rimasto alla porta del monastero per essere oggi qui ricevuto. Ed ora devi renderti ragione di questa tua attesa, poiché ti potrà riuscire di gran vantaggio intraprendere questa via, se tu, una volta intese le sue ragioni, ti accosterai al servizio di Dio come comportano le sue esigenze».


33. I MERITI RISERVATI AI FERVENTI, E I DEMERITI DEI TIEPIDI E DEI NEGLIGENTI

«Come infatti una gloria immensa è promessa in futuro da Dio a coloro che lo servono fedelmente e a quanti aderiscono a Lui secondo le regole di vita stabilite da questa istituzione, così pure pene gravissime sono preparate per coloro che le avranno seguite con tiepidezza e negligenza e non si saranno affatto curati di derivarne chiari frutti di santità proporzionati a quanto avevano professato e a quanto gli uomini da essi s’aspettavano di constatare. La Scrittura infatti così si esprime: “E meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli” (Ecl = Qo 5, 4); e ancora: “Maledetto colui che compie le opere del Signore con negligenza” (Ger 48, 10). Considera dunque tu stesso ora per quale motivo sei stato da noi per tanto tempo tenuto lontano. Non è certo perché non desideriamo cooperare con tutto il cuore alla tua salvezza e a quella di tutti gli uomini, e nemmeno perché non bramiamo di andare incontro, anche da lontano, a quanti intendono convertirsi a Cristo; il motivo è solo da porre nel timore che, ricevendoti senza riflessione, rendessimo noi stessi davanti a Dio colpevoli di leggerezza, e te stesso responsabile di una maggiore condanna, qualora, una volta qui accolto subito e con troppa facilità senza renderti conto dell’importanza della nuova vita, tu ti fossi poi deciso in seguito ad abbandonare oppure anche solo a viverla nella tiepidezza. Pertanto è assolutamente necessario che tu ben conosca anzitutto le ragioni vere della tua rinuncia al mondo, affinché, una volta ben comprese quelle, tu abbia motivo d’essere istruito più chiaramente su quello che dovrai compiere».


34. LA RINUNCIA AL MONDO È L’IMMAGINE DELLA MORTIFICAZIONE E DELLA CROCIFISSIONE DI CRISTO


«La rinuncia al mondo non è altro che un segno della croce e un indizio di mortificazione. Perciò oggi stesso tu devi renderti conto che sei morto al mondo, alle sue opere e ai suoi desideri, e che, come dice l’Apostolo, tu sei crocifisso al mondo, così come il mondo è crocifisso per te (cf. Gal 6, 14). Considera dunque le esigenze della croce, perché tu dovrai vivere d’ora innanzi sotto quel segno e sotto la sua luce: ormai non sarai più tu che vivi, ma vivrà in te Colui che per te è stato crocifisso (cf. Gal 2, 20). In questa vita noi dobbiamo conformarci a quel comportamento e a quell’immagine, da Lui offertaci quando si trovò affisso alla croce per noi, e questo perché, secondo l’espressione di Davide, dobbiamo trafiggere la nostra carne nel timore del Signore (cf. Sal 118 [119], 120), e asservire ogni nostra volontà e tutti i nostri desideri, non alla nostra concupiscenza, ma alla sua mortificazione. Solo così noi obbediremo al precetto del Signore, che così si esprime: “Chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me” (Mt 10, 38). Ma forse tu potresti dirmi: “Come può un uomo portare continuamente la croce, e come potrebbe qualcuno continuare a vivere, una volta crocifisso?”, lo te ne spiegherò la ragione con poche parole».


35. LA NOSTRA CROCE È IL TIMORE DEL SIGNORE


«La nostra croce è il timore del Signore. Come infatti uno, se è stato crocifisso, non ha più la possibilità di muoversi o di rivoltare le proprie membra secondo il volere della propria volontà, così pure noi non dobbiamo volgere la nostra volontà e i nostri desideri secondo quello che, al momento, ci torna gradito e dilettevole, ma dobbiamo regolarci secondo la legge del Signore, dove essa intende condurci. Chi è affisso al patibolo della croce, non s’avvince alle cose presenti, non si preoccupa degli attacchi del suo cuore, non si mette in apprensione per il suo avvenire, non si lascia dominare dal desiderio di possedere e neppure prendere da sentimenti di superbia, di contesa e d’invidia; non si rammarica delle ingiurie che ora riceve e non si ricorda di quelle ricevute in passato; egli, insomma, pur sentendosi ancora vivo nel corpo, è convinto d’essere già morto per tutti gli elementi del mondo, volgendo ormai lo sguardo del suo cuore verso la meta, alla quale egli non dubita di giungere al più presto. Allo stesso modo dobbiamo anche noi, grazie al timore del Signore, considerarci crocifissi a tutti gli elementi del mondo, ed è quanto dire, considerarci morti non soltanto ai vizi della carne, ma anche agli stessi elementi del mondo, tenendo gli occhi della nostra anima fissi alla meta, alla quale noi dobbiamo sperare di giungere in ogni momento. In questo modo noi potremo così dominare e mortificare ogni nostra concupiscenza e tutte le tendenze della nostra carne».

36. NON SI PUÒ TORNARE A RIPRENDERE QUELLO A CUI SI È RINUNCIATO PER SEMPRE

1.    «Guardati bene dal riprendere un giorno anche solo una parte di quello a cui tu hai rinunciato e, contro il divieto del Signore, dall’essere scoperto nell’atto di rivestirti, una volta ritornato indietro dal campo dell’operosità evangelica, di quella tunica di cui tu ti eri spogliato (cf. Mt 24, 18). Guardati dal ricadere nella rete delle passioni e delle tendenze di questo mondo e, contro il divieto di Cristo, non azzardarti a discendere dalla sommità della perfezione per andare a riprenderti qualche cosa di quello, a cui hai rinunciato (cf. Mt 24, 17). Guardati dal coltivare nella tua mente il ricordo dei parenti e delle tue passate affezioni, affinché, una volta richiamato alle cure e alle sollecitudini di questo mondo, tu non possa essere ritenuto adatto al regno dei cieli. Così infatti dichiara il Salvatore “a colui che pone mano all’aratro, e poi si volge a riguardare indietro” (Lc 9, 62).

2.    Guardati bene, allorché comincerai ad assaporare qualche esperienza dei Salmi e della tua osservanza religiosa, di non permettere, montato un po’ in superbia, che rinasca in te l’orgoglio che tu ora hai cominciato a calpestare grazie all’ardore della tua fede e con la professione di una perfetta umiltà. Se vogliamo stare alle parole dell’Apostolo, ricostruendo nuovamente quello che una volta tu hai già distrutto, rendi te stesso prevaricatore (cf. Gal 2, 18). Cerca piuttosto, in questa tua spoliazione di tutto, di cui hai fatto professione davanti a Dio e davanti ai suoi angeli di mantenerti saldo fino alla fine, come pure procura di perseverare in questa stessa umiltà e pazienza, con la quale, rimanendo per ben dieci giorni alle porte del monastero, hai implorato con tante lacrime di esservi accolto; e non cercare unicamente di mantenerti in queste virtù, ma di progredire e di crescere in esse. Sarebbe veramente deprecabile che tu, mentre dovresti fin dai primi passi avanzare e tendere alla perfezione, cominciassi a recedere fino a cadere sempre più in basso. Infatti non colui che ha cominciato, ma “colui che avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mt 24, 13)».

37.    OCCORRE VIGILARE CONTINUAMENTE CONTRO LE INSIDIE DEL DEMONIO E APRIRE AL SUPERIORE I SEGRETI DELLA PROPRIA COSCIENZA


«L’astuto serpente continuamente osserva il nostro calcagno, ed è quanto dire che pone continuamente insidie al cammino verso la nostra sorte e cercherà perciò di farci cadere fino al termine della nostra vita (cf. Sal 55 [56], 7). Pertanto a nulla gioverà aver cominciato bene e aver confermato con pienezza di fervore gli inizi della rinuncia al mondo, se poi anche una fine in tutto corrispondente non avrà assicurato e concluso quei princìpi. A nulla gioverà, se l’umiltà e la povertà di Cristo, che tu ora hai promesso davanti a Lui di praticare, da te non saranno osservate fino al termine della tua vita così come hai cominciato. E perché tu possa essere fedele a questa pratica, procura di tener d’occhio il capo di quel serpente, ed è quanto dire, non perdere di vista il primo apparire dei pensieri da lui suggeriti, e manifestarli subito al proprio padre anziano. Imparerai a combattere fin dall’inizio le sue perverse insinuazioni, se tu non avrai rossore a rivelare tutto al tuo direttore spirituale».


38.    STRETTA È LA VIA CHE CONDUCE ALLA VITA E POCHI SONO COLORO CHE LA TROVANO

«Pertanto, secondo la sentenza della Scrittura, tu, che ormai ti sei deciso a servire il Signore, resta ben saldo nel timore di Dio e disponi la tua anima, non al riposo, non alla sicurezza, non alla gioia, ma alla tentazione e alle difficoltà (cf. Eccle = Sir 2, 1). E in realtà “occorre che noi entriamo nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (At 14, 21), poiché “stretta è la porta, e difficile da percorrere è la via che conduce alla vita, e pochi sono coloro che la trovano” (Mt 7, 14). Considera dunque te stesso ormai come uno introdotto nel numero di questi pochi, e non lasciarti in preda alla tiepidezza sull’esempio della rilassatezza dei molti, affinché tu possa meritare di trovarti con i pochi nel regno di Dio: “Molti infatti sono i chiamati, ma pochi sono gli eletti” (Mt 20, 16), e ancora: “Ristretto è il gregge, a cui il Padre si compiacque di concedere l’eredità” (Lc 12, 32). Perciò non credere che sia una colpa leggera quella di chi, dopo aver scelto la via della perfezione, finisce per seguire una condotta del tutto imperfetta. Sono questi i gradi ed è questo il processo adatto per giungere a uno stato di perfezione».


39. DAL TIMORE DI DIO SI PASSA ALLA CARITÀ, LA QUALE AMA SENZA IL TIMORE

1.    «Il principio della nostra salvezza e la sua difesa è il timore di Dio (cf. Pr 9, 10). Grazie al timore di Dio coloro che s’avviano per il cammino della perfezione conquistano il principio della conversione, la purificazione dai vizi e il possesso sicuro delle virtù. E quando quel timore si è ben compenetrato nello spirito dell’uomo, produce il disprezzo di tutti i beni della terra, la dimenticanza dei parenti e la ripugnanza nei confronti del mondo stesso. Poi, da questo disprezzo e dalla rinuncia ad ogni propria facoltà nasce l’umiltà.


2.    L’umiltà viene comprovata da questi indizi: se essa mantiene mortificata ogni sua volontà; se essa non terrà celato, non solo alcuno dei suoi atti, ma nessuno dei suoi pensieri al proprio superiore; se nulla sarà riservato al proprio discernimento, ma tutto verrà rimesso al suo giudizio e verranno ascoltati avidamente e volentieri i suoi consigli; se in tutto egli sarà pronto ad obbedire e conserverà la costanza della pazienza; se non soltanto non sarà lui a recare ingiuria ad altri, ma non si lamenterà e non si rattristerà per quelle recate a lui da altri; se nulla egli farà che non sia suggerito dalla regola o dall’esempio dei padri anziani; se egli si accontenterà anche delle posizioni più umili e se considererà se stesso come un pessimo operaio, immeritevole di tutto quello che gli viene offerto; se considererà se stesso inferiore a tutti gli altri in modo da non ammetterlo soltanto a parole, a fior di labbro, ma nell’intimo del proprio cuore; se saprà dominare la propria lingua, senza mai alzare troppo la voce; se non sarà troppo facile e pronto ad abbandonarsi al riso.

3. A tali indizi e con segni simili a questi si può riconoscere la vera umiltà. E quando essa sarà da te realmente posseduta, ben presto essa ti farà risalire a un grado superiore, a quella carità cioè che esclude il timore (cf. 1 Gv 4, 18), e sarà per suo merito che tu comincerai a compiere spontaneamente e senza alcuna fatica quello che prima tu non adempivi senza pena e timore. Il tuo comportamento non sarà dettato dalla visione e dalla paura di una condanna, ma dall’amore del bene per se stesso e dalla gioia prodotta dalla virtù».


40. OCCORRE IMITARE GLI ESEMPI, NON DI MOLTI, MA SOLO DI QUALCUNO, OPPURE DI POCHI


«E perché tu possa raggiungere questa meta nel tuo dover vivere in comunità, ti occorrerà prendere esempi da imitare, in vista di una vita perfetta, da parte di un numero molto ristretto, fosse pure di uno o di due, e non certo di molti. E il motivo sta nel fatto che una vita veramente controllata e condotta fino alla perfezione si ritrova in ben pochi. In più s’aggiunge questo vantaggio, che per raggiungere la perfezione delle proprie aspirazioni, vale a dire, della vita cenobitica, ognuno vi arriva sicuramente formandosi e conformandosi sull’esempio di uno solo».


41. NON LASCIARTI TRASCINARE DAGLI ESEMPI NON EDIFICANTI


1.    «E allora, perché tu possa giungere a questo fine preciso e perseverare fino in fondo nell’osservanza di queste norme spirituali dovrai necessariamente attenerti, entro il monastero, a queste tre condizioni: ecco anzitutto le parole del salmista: “Io, come un sordo, non prestavo ascolto e stavo come un muto senza aprire la mia bocca. Ed ero divenuto come un uomo incapace di udire, senza possibilità di rispondere” (Sal 37 [38], 14-15). Anche tu comportati come un sordo, un muto e un cieco. All’infuori di colui che ti sei proposto come un modello da imitare in vista della sua vita esemplare, procura, come fossi un cieco, di non vedere quanto ti si offre di meno edificante, in modo da evitare di essere indotto, per l’autorità e la condotta stessa di coloro che così si comportano, a compiere e fare quello che tu stesso prima avevi condannato.


2.    Se t’avverrà di sentir dire che qualcuno non è obbediente, è ribelle e maldicente, o comunque è tale da tenere una condotta diversa da quella che ti era stata insegnata, non lasciarti turbare, e tanto meno non indurti, per tali esempi, ad imitarlo. Come se tu fossi sordo, trascura tutti questi discorsi inutili, come se tu mai avessi dovuto ascoltarli. E se a te o a qualunque altro saranno rivolte ingiurie o fatte offese, conservati insensibile e ascolta gli insulti come si comporta il muto che non risponde per averne vendetta. Tieni presente nel tuo cuore, fino a ricantarne le parole, questo versetto del salmista: “Ho detto: Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua. Porrò un freno alla mia bocca, mentre l’empio sta dinanzi a me. Sono rimasto in silenzio, mi sono umiliato e mi sono perfino astenuto dal dire cose buone” (Sal 38 [39], 2-3).


3.    Ma, ancora più degli altri suggerimenti, procura di mettere in atto questo consiglio, destinato a coronare e a completare i tre precetti dettati in precedenza: cerca di comportarti da stolto in questo mondo, secondo il suggerimento dell’Apostolo (cf. 1 Cor 3, 18), proprio per essere sapiente. Perciò non metterti a disapprovare e a giudicare quello che ti verrà comandato, ma procura di praticare sempre l’obbedienza con semplicità e con fede, ritenendo santo, utile e saggio unicamente tutto quello che la legge di Dio o il criterio del superiore ti avrà comandato. Una volta posti i tuoi fondamenti su questo sistema di vita, tu riuscirai a perseverare per sempre in tale disciplina, e così nessuna tentazione del nemico e nessuna deviazione t’indurrà ad abbandonare il monastero».

42. LA PAZIENZA È UNA VIRTÙ CHE DIPENDE SOLTANTO DA NOI


«Non devi sperare che la tua pazienza derivi dalla virtù degli altri, nel senso che tu riesca a possederla soltanto quando non venga provato da altri. Infatti, impedire che questo avvenga non è affatto in tuo potere. Invece essa si formerà grazie alla tua umiltà e alla tua generosità, e perciò essa dipende dal tuo libero arbitrio».


43. CONCLUSIONE DEL DISCORSO DELL’ABATE PINUFIO

«E perché tutti questi suggerimenti, disseminati fin qui in un discorso abbastanza ampio, restino fissati più facilmente nel tuo animo e aderiscano tenacemente nei tuoi sensi, io ne trarrò un breve riassunto affinché tu possa, proprio nella brevità e nel compendio di tutti questi precetti, mantenerne il ricordo nella loro complessità. Ascoltane dunque tutta la serie ordinatamente in modo che tu possa, senza troppe difficoltà, salire fino alla sommità della perfezione.


Il principio della nostra salvezza e della nostra saggezza è dunque il timore del Signore (cf. Pr 9, 10). Dal timore del Signore deriva una compunzione salutare. Dalla compunzione del cuore scaturisce la rinuncia, vale a dire, la privazione volontaria e il disprezzo di tutti i beni. Da questa privazione di tutto nasce l’umiltà. Dall’umiltà si genera la mortificazione di ogni volontà propria. Per effetto della mortificazione della volontà vengono estirpati tutti i vizi. Con l’eliminazione dei vizi sorgono, fruttificano e crescono le virtù. Con lo sbocciare delle virtù si acquista la purezza del cuore. Con la purezza del cuore si raggiunge il possesso della perfezione, tutta propria della carità apostolica».


[san Giovanni Cassiano, Istituzioni]








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