Il
silenzio.
Dalla
paura alla familiarità
Capita spesso che chi salga a farmi
visita nel mio piccolo eremo sui monti, soprattutto al momento dei saluti
finali, se ne esca in esclamazioni come: «Che
meraviglia! Padre, ma lo sa che abita in un posto veramente fantastico. Che
pace, che silenzio. Vivrei volentieri qui accanto a lei».
Effettivamente la prima cosa che
colpisce nella vita di un’eremita è proprio il silenzio e la solitudine.
Eppure, nonostante le entusiastiche
esclamazioni dei miei ospiti, nessuno, almeno finora, si è fermato ad abitare
questo silenzio, perché questo affascina, ma al tempo stesso atterrisce. Ci
attrae e respinge.
Nella vita cristiana il silenzio è il
luogo dell’hypomoné, letteralmente il
luogo della sottomissione, in cui restare, porre radici. Come il seme che si
consegna alla terra, che vi si sottomette (nel vero senso della parola), e la
abita non in vista di una custodia statica, come il talento della parabola, ma
di una fecondità illimitata, che porta il seme a morire per farsi “altro”. Una fecondità che non è capacita
imprenditoriale – deriva a cui spesso sembrano scivolare anche molti uomini e
donne di Chiesa –, ma che è atteggiamento squisitamente spirituale del “rimanere sotto”. Il silenzio fa paura
perché sembra schiacciarci. Ci avvolge da ogni parte, ci entra nella gola, ci
riempie le viscere, sembra smorzarci il respiro e volerci annientare. Si
desidera, ma si fa di tutto per evitarlo.
Appena ci si alza la mattina, subito si
controlla lo smartphone.
Mentre ci si prepara il caffè, si
ascoltano le notizie alla tv.
Non appena si sale in macchina, ecco che
si accende automaticamente l’autoradio.
Se invece si accetta l’iniziale
disorientamento del restare schiacciati sotto la coltre del silenzio, se si
supera la paura dell’immobilismo e dell’improduttività accettando di abitarlo
con umiltà, ben presto si scopre che il silenzio non è una terra di morte, ma
di incubazione. Luogo in cui si viene spogliati, trasformati, semplificati e,
per così dire, preparati all’incontro con Dio.
Nella basilica di sant’Ambrogio a Milano
vi un dettaglio estremamente suggestivo nell’antico ambone, ricomposto da
Guglielmo da Pomo nel XII dopo il crollo di una campata. All’angolo ovest vi è
un bellissimo telamone che sostiene il peso del luogo dell’ascolto. Un’immagine
veramente eloquente dell’orante che si lascia sotterrare dal silenzio per
sostenere e far germinare la parola. Se vuole veramente mettersi in ascolto di
Dio, della sua Parola, il cristiano deve farsi silenzio; sottostare al silenzio
di un «mormorio di vento leggero»
(1Re 19,12) per reggere all’urto dirompente di una Parola che è «spada a doppio taglio» (Eb 4,12).
Nel silenzio la parola di Dio si fa in
qualche modo tangibile, persino, oserei dire, visibile, come ebbe ad affermare san
Giovanni il Teologo, l’apostolo amato. Mentre si trovava in esilio sull’isola
di Patmos, nell’arcipelago della Grecia, nel giorno del Signore egli sentì
dietro di sé «una voce potente, come di
tromba che diceva: quello che vedi scrivilo» (Ap 1,11). Il veggente,
allora, si voltò «per vedere la voce»
(Ap 1,12), come dice il testo greco: blèpein
ten phonèn che, a mio avviso, è una delle espressioni più suggestive e
cariche di senso di tutta la Bibbia. Non per ascoltare la voce, ma per vedere
quella Parola che nella carne si è fatta silenzio.
Forse
oggi, come mai prima, si assiste a una logorrea di parole, non solo vuote o
inutili, ma anche offensive e violente, specie sui social. Si parla perché si
ha paura di stare in silenzio. In modo un po’ caustico san Girolamo, eremita,
amante del silenzio e appassionato della Parola, avvertiva: «fatica a fare silenzio chi non ha mai
imparato a parlare». Credo che gli uomini della nostra epoca temano tanto
il silenzio proprio perché incapaci di comunicare veramente.
Ammoniva abba Isidoro di Pelusio, asceta
del IV secolo: «Una vita senza parola può
giovare più che una parola senza vita», come a dirci, con la lapidaria
sinteticità degli eremiti, che ciò che conta veramente non è né la parola né il
silenzio, ma la coerenza di vita. Questa ci regala la cittadinanza dei santi e la Familiarità con Dio (Ef 2,19).
[p. Michele Di Monte,
La Via. Speciale di Natale, Roveleto, Dicembre 2019].
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