“Che aspetteremo ancora?
Che qualcuno dall’alto dei cieli ci canti un canto
celeste?
Ma in cielo tutto vive dello Spirito Santo e sulla
terra il Signore ci dona lo stesso Spirito Santo. Nelle Chiese, le liturgie
sono compiute dallo Spirito Santo; nei deserti, sulle montagne, nelle caverne e
dovunque, gli asceti di Cristo vivono nello Spirito Santo; e se li guardiamo,
saremo liberi da ogni oscurità e la vita eterna sarà nelle nostre anime già
quaggiù”.[1]
[san Silvano del Monte Athos]
L’unico fine a cui tende la santa Chiesa è la Gerusalemme celeste[2]. Ogni membro del corpo ecclesiale è costituito per confluire a questo fine, «Vi è però una forma di vita che non solo vi ci conduce, ma che la anticipa. La vita eremitica, liberando gli uomini dalle preoccupazioni che spesso allontanano dal cielo, li rende simili agli angeli e ad essi li unisce»[3].
Quando il rumore delle parole degli uomini si fa
assordante e l’ascolto della Parola di Dio diventa difficile in un mondo
affannato nella costruzione delle tante, troppe, torri di Babele, il Signore
suscita sempre qualcuno, uomo o donna, che riprenda la via del deserto: «Ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel
deserto e parlerò al suo cuore»[4].
Il Signore attira nel deserto per rinnovare una storia d’amore, per rinverdire
la risposta della Chiesa sua sposa, sempre tentata di cedere alle tiepidezze,
alla sonnolenza, alla dimenticanza dell’oblio e al tradimento.
«È difficile
vedere Cristo in mezzo alla folla – scriveva sant’Agostino –, ci è necessaria la solitudine. Nella
solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è
chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio»[5].
Imparare ad abitare la solitudine – la solitudine cristiana s’intende! –
significa imparare ad abitare lo spazio delle relazioni con Dio e con gli
altri, acquisire un cuore ospitale che sappia ascoltare l’Altro e gli altri, i
fratelli. Il deserto e la solitudine si scoprono, così, correlativi alla
comunione, e la comunione diviene il frutto più squisito della solitudine.
E tuttavia il deserto, che pure appartiene alla storia
e alla vocazione della Chiesa, non è amato[6].
Fedele al comando di Cristo, di tanto in tanto, la Chiesa si ritira in
disparte, si raccoglie per ascoltarne la Parola e trovare riposo, ma subito fugge,
preferendo l’affannoso affaccendarsi di Marta al tranquillo ascolto di Maria.
Trascinata dal turbinio delle cose materiali, preferisce rincorrere chimere
passeggere e accarezzare poteri terreni. Ecco perché Dio non ha mai fatto
mancare alla sua Chiesa, in ogni epoca, almeno qualche abitante del deserto.
Perché gli sia di monito, di richiamo a quell’unica cosa essenziale che non le sarà tolta con il venir meno della scena
di questo mondo: Cristo crocifisso e risorto, Primo, Ultimo e Definitivo.
L’eremita dimora nel deserto non come in un rifugio,
in un’oasi felice dalla quale tenere lontano le miserie terrene, anche perché
il mondo – chiunque ha mai fatto un po’ di silenzio lo sa bene – ce lo si porta
con sé, dentro. Il deserto è per lui crogiuolo, luogo di prova, fornace ardente
che per grazia è costantemente trasformato in quel giardino dell’intimità di
cui parlano Osea o il Cantico dei Cantici, in quella fornace di Babilonia in
cui i tre fanciulli passeggiano con l’angelo e cantano la lode cosmica[7],
in quel giardino della resurrezione nel quale Colui che era stato cercato con
lacrime d’amore appare a Maria Maddalena e la chiama per nome[8].
Come nel IV
secolo, in una Chiesa appena uscita dalla stagione del martirio e subito scesa
a patti con i poteri di questo mondo il Signore aveva chiamato nel deserto uomini
e donne che vivessero soltanto della sua Parola e testimoniassero con la loro
vita la prossimità del suo ritorno, così fu anche agli inizi del secondo
millennio[9].
Manfredo Settala, nato a cavallo tra la prima e la
seconda metà del XII secolo, nel
cuore della fase del grande slancio dell’Occidente medievale – in una regione
che ne è al tempo stesso soggetto attivo e oggetto profondamente segnato: la Lombardia –, come tanti
altri nella sua epoca, rispose alla chiamata di Dio verso il deserto.
Figlio legittimo
della città, figlio di un feudo addossato alla grande e già allora caotica
Milano, studente della scuola cattedrale e ordinato prete nel cuore dell’urbe,
sceglierà tuttavia di prendere le distanze dalla città, in un sempre maggior
allontanamento che lo porterà ad abitare la solitudine estrema di un monte ai
confini della diocesi Ambrosiana. Emulo del grande Antonio, ripercorrerà le
tappe di un progressivo allontanamento dal centro abitato verso il deserto
delle cose e degli uomini, per giungere, in fine, alla scoperta di un eremo
interiore, solo spazio creativo di dialogo con l’Eterno.
Ben si adattano al nostro beato le parole che il
grande vescovo di Alessandria, sant’Atanasio, rivolse all’amico sant’Antonio: «Uomini come lui, anche se operano nel nascondimento,
anche se si sforzano di rimanere nell’ombra, il Signore li mostra a tutti come
una lucerna, affinché chi li ascolta sappia quanto possano i comandamenti, e
sappia governarsi, e desideri percorrere la strada della virtù spirituale»[10].
Alcuni cenni biografici
Icona del Beato Manfredo Settala |
Occorre tuttavia ricordare che alle volte queste Vite sono state scritte senza alcuna
pretesa di veridicità storica, poiché il loro scopo non è quello di
tratteggiare una biografia del personaggio in questione. Potremmo paragonarle
alle icone dei santi del primo millennio, e ancora in uso nelle Chiese
ortodosse, che non si preoccupano per nulla della somiglianza fisionomica,
caratteristica invece dei ritratti, quanto di evocare Dio come l’Archetipo, a immagine
e somiglianza del quale è stato creato ogni uomo. Come l’icona è Parola di Dio
che si contempla nel colore[11],
così la vita di un santo è Parola di Dio che si contempla nella carne[12].
Purtroppo, per quanto riguarda la vita del beato
Manfredo, non possediamo fonti scritte antiche. Gli unici documenti che ci sono
pervenuti, e sui quali ci si può basare nella ricostruzione biografica,
risalgono all’epoca rinascimentale e post-rinascimentale e nessuna si può
definire una vera e propria biografia o agiografia[13].
Sconosciuta e ricavabile soprattutto in maniera
approssimativa e per via induttiva, la data di nascita si potrebbe
verosimilmente collocare a cavallo tra la prima e la seconda metà del XII
secolo[14].
Le fonti identificano Manfredo come membro della nobile
famiglia dei conti Settala di Milano, proprietaria di un grosso feudo a sud
della città e molto attiva nella vita civile e religiosa del XII-XIII secolo.
Ci basti qui ricordare che i Conti Settala ebbero un ruolo di primordine sia
nel movimento della Lega Lombarda sia nella guida della Chiesa ambrosiana,
potendo esprimere un proprio candidato alla sede arcivescovile nella persona di
Errico Settala (1213-1230)[15].
Pur potendo ricostruire il quadro storico dell’epoca
in cui visse Manfredo, non ci è tuttavia possibile accertare in alcun modo che
tipo di bambino e adolescente egli sia stato, né siamo in possesso di notizie
sicure sull’intero periodo della sua vita precedente alla partenza per l’eremo
sul monte san Giorgio. È tuttavia impossibile non considerare quanto la figura
e l’insegnamento di grandi uomini della sua epoca, come il grande arcivescovo
san Galdino (in carica dal 1166 al 18 aprile 1176 e dal quale, con ogni
probabilità, fu ordinato sacerdote), abbiano influito sulla formazione e
l’educazione del giovane.
Alcune fonti rinascimentali e popolari narrano di un
periodo della vita del beato, precedente a quello eremitico, come parroco di
quattro villaggi dell’alta Valceresio: Cuasso al Monte, Cuasso al Piano,
Brusimpiano e Porto Ceresio[16].
Al di la del problema delle date, sempre rilevante, si
pone qui la questione del perché Manfredo, membro di una delle famiglie più
importanti e in vista del suo tempo, fu inviato a svolgere il ministero di
parroco in un luogo così sperduto e ai confini della diocesi. Si trattò di semplici
motivi pastorali? Fu forse un esilio? O ci sono altre spiegazioni plausibili?
A quel tempo la Valceresio – che secondo alcuni prenderebbe il
nome dal latino Valle dei ciliegi –,
comprendeva i paesi di: Arcisate, Induno, Besana, Porto Ceresio, Clivio, Viggiù, Saltrio, Brusimpiano, Cuasso, Bisuschio
, Ligurno con Cazzone e Brenno, tutti sotto l’autorità spirituale dell’antichissima Pieve di san Vittore in Arcisate[17]. Il fatto che i suddetti paesi fossero iscritti nel territorio della Pieve di Arcisate e che non ci sia nessuna notizia circa la costituzione di Cuasso, Porto e Brusimpiano come parrocchie nell’epoca da noi presa in considerazione, ci fa pensare ad una retro-proiezione storica del nostro biografo.
Tuttavia non sarei così frettoloso nel liquidare la
questione. È probabile che Manfredo sia sì passato dal territorio di Cuasso, ma
non per svolgervi l’incarico di parroco.
Il territorio in questione faceva parte del più ampio
Contado del Seprio, che si estendeva dal Canton Ticino alle porte di Milano,
nella zona compresa tra il Ticino e il Seveso. Insieme alle città di Como,
Lodi, Cremona e Piacenza, era soggetto al dominio della città ambrosiana. Per
comprendere quanto questi territori mal tollerassero una tale dipendenza
forzata, basti qui ricordare che fu sopratutto grazie all’aiuto di questi
Contadi, ed in particolare del Seprio, se, nel 1157/58 dopo due mesi di
assedio, l’imperatore riuscì a prendere Milano.
Nel 1160,
in seguito alla scomunica fulminata da Alessandro III
nei confronti dell’Antipapa Vittore IV e di Federico I, l’arcivescovo Oberto da
Pirovano guidò la città alla ripresa dei Contadi che l’imperatore aveva
affrancato dal proprio dominio, riportando due fragili vittorie a Montorfano e
Angera[18].
Soprafatte dell’esercito imperiale le milizie comunali si videro costrette a retrocedere
e rifugiarsi a Milano dove, dopo un assedio di sette mesi, la città fu presa.
In quella triste circostanza ai Contadi ribelli fu data la gioia di devastare a
picconate una porzione della città ciascuno: i lodigiani Porta Orientale, i
cremonesi Porta Romana, i pavesi Porta Ticinese, i novaresi Porta Vercellina, i
comaschi Porta Comasina, e i contadi del Seprio e della Martesana Porta Nuova[19].
Le successive relazioni della Chiesa ambrosiana con il
Contado del Seprio seguirono le alterne vicende politiche di quegli anni,
facendosi distese durante la fragile pace con l’imperatore, ratificata con il
concilio Lateranense III (1179), per inasprirsi nuovamente sotto
l’episcopato/pontificato di Uberto Crivelli (Urbano III, 1185-1187), acerrimo
nemico dell’imperatore.
Possiamo dunque supporre che fu proprio durante
l’episcopato del Crivelli che Manfredo fu inviato nella Valceresio, con il
compito di vigilare sui nobili, sul clero e sulla popolazione seprese, che già
più volte si era rivelata traditrice. Avere un membro dell’alta aristocrazia
milanese, che come lui aveva sofferto le incursioni e la prepotenza
dell’imperatore, quale mediatore e rappresentante in quelle regioni di confine,
poteva essere un’abile strategia politica.
Impossibile dire con certezza anche l’anno in cui il
Settala si ritirò sul monte san Giorgio, ma va certamente identificato prima
del 1207, anno in cui, stando ai documenti, un gruppo di Olgiatesi si recò in
pellegrinaggio dal santo eremita per implorarlo di liberarli della peste che li
affliggeva. In quella circostanza il beato avrebbe invitato i pellegrini a
recarsi a Monza, indicando con precisione il luogo e il posto in cui avrebbero
trovato il corpo di san Gerardo, morto da qualche giorno. Arrivati nel tal
posto avrebbero dovuto scavare «sotto
certi sassi, nei pressi di un grosso albero di sambuco», dove avrebbero
trovato il corpo del santo avvolto in un mantello, e dargli una degna
sepoltura. Solo così – disse loro il santo eremita – Dio li avrebbe liberati
dalla peste che li angosciava[20].
Trasfigurazione pasquale, anticipo
della resurrezione
«Un’anima
ricolma di Spirito santo la si riconosce da segni infallibili, cioè dai
miracoli e dall’umiltà. Se questi due segni si trovano armoniosamente congiunti
in una persona, non c’è dubbio che testimoniano la presenza dello Spirito santo
in essa»[21]. Queste
parole del santo vescovo Gregorio Magno c’introducono ora a porre l’attenzione
su un aspetto della vita del santo eremita piuttosto delicato: i miracoli.
Vorrei soffermarmi qui su due prodigi in particolare:
uno sonoro e uno visivo.
Tutte le fonti concordano nel narrare che alla morte
del santo le campane dei paesi vicini cominciarono a suonare in modo
miracoloso, spingendo i fedeli a salire in massa sulla cima del monte san
Giorgio: «Venendo a morte le campane
suonarono da se stesse, senza essere toccate da niuno, né mai cessarono finché
non fu trovato il santo di Dio»[22].
Una tale teofania sonora è volta a richiamare l’attenzione dei fedeli a ciò che
stava accadendo nella piccola cella in cima al monte san Giorgio: il santo
eremita stava celebrando la sua Pasqua definitiva e veniva accolto in cielo da
Colui che aveva servito e amato per tutta la vita.
Gli scritti dei santi padri sono pieni di
testimonianze analoghe. Il già citato san Gregorio dedica l’intero libro IV dei
Dialoghi proprio alla narrazione di
tali avvenimenti. Il momento del trapasso di un santo è spesso segnalato e
accompagnato da fenomeni luminosi, olfattivi e sonori. Così, ad esempio, è
descritta la morte della santa vergine Romola: «Si cominciò a sentire uno scalpiccio, come se stesse entrando una
grande folla; la porta della cella si mise a tremare […] e una luminosità
sfavillante li avvolse. Dopo la luce sopraggiunse la fragranza di un soavissimo
profumo, la cui dolcezza sollevò il loro animo, che era stato gettato in un
fosco smarrimento dall’accecante improvviso bagliore. […] Poi, mentre nello
spiazzo antistante la porta della cella due cori salmodiavano a cori alterni,
quell’anima santa fu sciolta dalle catene e portata in cielo; intanto quanto
più i cori salmodianti salivano, tanto più indistinto e fievole si faceva il
canto, finché si perse in lontananza. Anche la soavità del profumo, che era
stata tanto persistente, svanì»[23].
Esempi simili si possono trovare ancora più indietro
nel tempo, tra i padri del deserto d’Egitto del IV e V secolo. Nella Vita dei santi Massimo e Domezio, ad
esempio, si racconta di come abba Macario il Grande vide «Il coro dei santi che si disponevano intorno all’anima del beato
Domezio, precedendolo tra suoni di cembali, nell’aria, elevandosi sin nell’alto
dei cieli»[24].
Il manoscritto
Triulzio aggiunge un particolare interessante sul trapasso del beato
Manfredo: «Il corpo del santo eremita fu
trovato in ginocchio, colle mani sollevate, come quello di san Paolo eremita»[25].
In questo modo la vita del santo asceta è messa in stretto contatto e perfetta
successione con il primo santo eremita della storia: Paolo di Tebe. Ecco come
ci racconta il momento della sua morte san Girolamo: «Allo spuntare del nuovo giorno, quando [ad abba Antonio] rimanevano tre
ore di cammino, vide tra le schiere angeliche e i cori dei profeti e degli
apostoli, Paolo che ascendeva al cielo rifulgente di un immacolato candore. […]
Entrato nella caverna, vide il corpo esamine di Paolo inginocchiato, con il
capo eretto e le mani sollevate in preghiera»[26].
Sant’Antonio, che aveva visto l’anima del suo santo amico accolto in cielo tra
il canto festoso dei santi e degli angeli, lo ritrova ancora nella posizione
dell’orante, così come le parrocchie ai piedi del monte san Giorgio, avvisate
dell’ingresso trionfale del loro eremita nella casa del Padre dal suono delle
campane, lo ritrovarono in preghiera.
Il secondo miracolo che prendiamo in considerazione
perdura fino ai nostri giorni ed è tuttora ben visibile e riscontrabile da
chiunque si rechi pellegrino a Riva san Vitale: il corpo incorrotto.
Nella concezione cristiana non vi è dicotomia tra
anima e corpo, ma l’uomo tutto intero, anima e corpo (e non solo l’anima), è
fatto a immagine di Dio[27].
Scriveva sant’Ireneo: «Per mezzo delle
mani del Padre, cioè il Figlio e lo Spirito, l’uomo e non solo una parte
dell’uomo è fatto ad immagine di Dio. Ora l’anima e lo spirito possono essere
una parte dell’uomo, ma in nessun modo l’uomo: l’uomo perfetto è la mescolanza
e l’unione dell’anima, che ha ricevuto il respiro del Padre e si è mescolata
alla carne plasmata ad immagine di Dio»[28].
Al momento della trasfigurazione sul monte Tabor i
discepoli poterono rendersi conto di questo mistero ineffabile contemplando il
corpo di Cristo. Essi, infatti, ebbero nel medesimo tempo un assaggio di ciò
che sarà il corpo glorificato dopo la resurrezione dai morti e di ciò che
sarebbe stata la nostra natura umana se non ci fosse stato il peccato di Adamo.
Il corpo dei santi – di coloro cioè che in questa vita presente sono tornati
allo stato di grazia che apparteneva all’uomo prima della caduta –, raggiunge
spesso alcuni dei tratti caratteristici dell’incorruttibilità che possedeva
Adamo nel giardino dell’Eden e che tutti i giusti possiederanno dopo la
risurrezione del corpo.
Normalmente, la relazione che i giusti defunti
mantengono con i loro corpi rimane invisibile, ma può capitare, come nel caso
del corpo del beato Manfredo Settala e dei santi, che questa appaia anche
all’esterno, fenomenologicamente.
Qual è il significato teologico del prodigioso suono
delle campane e del corpo che attraversa i secoli rimanendo incorrotto? Vi
possiamo cogliere almeno due elementi di importanza fondamentale.
Anzitutto questi segni sottolineano il significato che
il corpo umano ha per la teologia cristiana. Essi coinvolgono il corpo del
santo e sono percepiti e accolti con occhi e orecchie fisici, di modo che i
fedeli possano sapere che, come in Cristo, anche nei sui santi «Abita tutta la pienezza della divinità»[29].
E proprio come la gloria di Cristo non è solo interiore, ma fisica e corporale,
allo stesso modo è per quella dei santi come il beato Manfredo. Questi prodigi
sottolineano la sua avvenuta divinizzazione,
come la chiamavano i santi padri greci, che non è qualche cosa che riguarda
solo l’anima, ma coinvolge anche il corpo, poiché, come diceva san Massimo il
Confessore: «Il corpo è deificato insieme
con l’anima»[30].
In secondo luogo questi segni hanno una valenza
escatologica, rappresentano cioè un anticipo della parusia. La glorificazione
del corpo del beato Manfredo, che si manifesta attraverso l’incorruttibilità
fisica e i numerosi miracoli che si operano attraverso le sue reliquie,
illustra la posizione del cristiano, che è «nel
mondo ma non del mondo»[31],
che si trova nel punto di intersezione tra il tempo presente ed il tempo futuro
e che vive al tempo stesso nell’uno e nell’altro.
Circa il caso del beato Manfredo Settala va ricordato
che le campane, considerate come res sacra,
venivano benedette dal vescovo con un rito che richiamava quello del battesimo:
lavaggio con l’acqua lustrale, unzione con il crisma mentre una madrina teneva
la mano su di esse, sospensione al di sopra di un turibolo fumigante perché si
riempisse di profumi e potesse diffondere con il suono il soave profumo di
Cristo, e imposizione di un nome nuovo[32].
Le campane dunque rappresentano l’unione tra cielo e terra. Chiamano a raccolta
i fedeli per la preghiera, ma rappresentano la voce e la preghiera delle realtà
celesti. Suonano nella Chiesa terrestre, ma preannunciano il gaudio del cielo.
Quando, al momento della morte del beato, cominciarono
a suonare le campane a festa non fu solo per richiamare l’attenzione dei
fedeli, ma per diffondere, tra le valli e il lago, il giubilo della Chiesa
celeste che accoglieva un suo figlio. Cielo e terra si univano nella medesima
gioia, come pegno, promessa e manifestazione della gloria del paradiso.
Ecco cosa scriveva san Macario a proposito della
glorificazione dei corpi dei santi: «In
quel giorno ciascuno sarà glorificato anche nel corpo, nella misura in cui
mediante la fede e lo zelo avrà meritato di diventare partecipe dello Spirito
Santo. Quei tesori che ora l’anima serba dentro di sé allora saranno svelati e
manifestati al di fuori del corpo. […] Poiché è dall’interno che esce la gloria
dello Spirito Santo che avvolge e riveste i corpi dei santi; questa gloria era
nascosta dentro le anime. Ciò che uno ora ha in sé uscirà allora all’esterno,
nel suo corpo»[33].
Il culto pubblico al b. Manfredo
Vi è
un altro aspetto nella vicenda del beato Manfredo, oltre ai miracoli di cui
abbiamo parlato, capace di suscitare grande scalpore nell’uomo moderno: il
culto pubblico che lo ha accompagnato fin dal giorno della sua morte. Un culto
che appena un centinaio di anni più tardi Beltramo da Brossano, vescovo di
Como, volle accrescere e valorizzare, ordinando che il santo corpo dell’eremita
fosse posto in una nuova urna e solennemente collocato sopra l’altare della
chiesa di Riva san Vitale[34].
Ciò
che stupisce non è tanto il fatto che la Chiesa istituzionale abbia riconosciuto il culto
di un santo diffusosi prima del suo riconoscimento canonico, quanto la
devozione di una intera Chiesa locale per il santo in questione: un eremita. Che
la Chiesa si
rivolga da sempre ai santi, non stupisce, poiché per essa questi amici di Dio
non sono morti, ma continuano a vivere, ed è dunque normale che i fedeli si
rivolgano a loro per un aiuto e un conforto. Secondo san Giovanni Damasceno, ad
esempio, i santi: «sono ricettacolo del
Signore e sua pura dimora»; la loro morte è sonno (dormizione), più che morte. Anche nella morte, infatti, essi
restano vivi, al cospetto di Dio, poiché attraverso l’intelletto Dio abita nei
corpi dei santi, divenuti come «templi vivificati,
ricettacoli animati di Dio»[35].
Da qui ne consegue la necessità di venerare le reliquie dei santi come fonti di
guarigioni e miracoli: «Il Signore Gesù
Cristo ci ha dato le reliquie dei santi come fonti apportatrici di salvezza,
che in un modo molto semplice fanno scaturire benefici ed emanano unguenti
profumati: e che nessuno sia incredulo! […] Nella legge chiunque toccasse un
morto diventava impuro, ma questi non sono morti! Infatti, da quando fu
calcolato fra i morti Colui che è vita per se stesso ed è causa della vita, noi
non chiamiamo morti coloro che si sono addormentati nella speranza della
resurrezione e nella fede in Lui. Infatti un corpo morto come potrebbe operare
miracoli? Come attraverso di essi i demoni sono cacciati, i malati sono
guariti, i ciechi riacquistano la vista, i lebbrosi sono purificati, le
tentazioni e le afflizioni sono disciolte? E come attraverso di essi ogni buon
dono discende dal Padre delle luci a coloro che pregano con fede non
insistente?»[36].
Ora,
dicevamo, ciò che stupisce il fedele dei nostri tempi (il fedele di retta fede,
si intende!) non è il fatto che la
Chiesa abbia continuato a rivolgersi al beato Manfredo
Settala considerandolo vivo e al cospetto dell’Altissimo, quanto piuttosto che
il santo in questione sia un asceta solitario. L’uomo moderno, infatti, si
domanda attonito: che cosa ha da insegnarmi un simile santo? Come posso io che
vivo nel XXI secolo, in un mondo caotico e complesso, seguire l’esempio di un
eremita?
Questo
pensiero, purtroppo, è frutto di un modo errato di intendere la santità nella
Chiesa di oggi.
Scrive
p. Adalberto Piovano: «Semplificando si
potrebbe dire che l’Occidente ha favorito un modello di santità orizzontale,
nella linea dell’exemplum. Nell’Oriente ortodosso l’approccio alla santità
segue piuttosto un movimento verticale, attraverso uno sguardo contemplativo.
Essenzialmente nel santo si coglie la gratuità della rivelazione della santità
stessa di Dio, che si incarna nella storia dell’uomo. E anche se nelle varie
epoche si sono formate particolari tipologie di santità, tuttavia queste non
rimangono chiuse o legate a singole categorie di fedeli (quasi modelli
funzionali a una particolare scelta di vita cristiana), ma sono aperte e
orientative per ogni fedele. Così, ad esempio, la santità monastica, la forma
più diffusa nell’ortodossia, non è rimasta “appannaggio” dei monaci, ma è stata
percepita ecclesiasticamente come l’espressione più completa, accanto al
martirio, di un cristianesimo radicale, autenticamente vissuto»[37].
Nella
Chiesa moderna il santo è diventato come una sorta di cartellone pubblicitario
o un programma politico, con il risultato di una categorizzazione della
santità: buona per alcuni e inutile per altri. Estremizzando – ma neanche poi
tanto –, si osserva lo strano fenomeno per cui una casalinga non saprà cosa
farsene dell’esempio del Grande eremita sant’Antonio o del nostro beato
Manfredo, così come per un eremita o un missionario, Gianna Beretta Molla appare
un modello tutt’altro che semplice da seguire e imitare.
Negli
ultimi decenni l’occidente ha offerto una tipologia di santità funzionale alle
mode e alle ide “politiche” e “religiose” del momento, passando dalle
eroine della difesa della vita a tutti i costi ai campioni del servizio alle
periferie del mondo.
Al
contrario nella Chiesa antica – come tuttora nella Chiesa Ortodossa –, fedele
alla Tradizione patristico-monastica, vigeva una dimensione essenziale e non
funzionale della santità. Il santo, in quanto icona visibile dell’uomo che vive
secondo lo Spirito, è per tutta la chiesa – di fatto e non solo in teoria –
punto di riferimento e guida al Dio uomo.
Ecco perché
non cesserò mai di essere grato alla Chiesa di Lugano e alla comunità credente
che è in Riva san Vitale, perché ha mantenuto e continua a mantenere la memoria
orante e devota nei confronti di un santo che è santo per tutti, e non solo per
monaci ed eremiti. Ogni uomo, infatti, se vuole essere vero discepolo di Cristo
è chiamato ad una vita di ascesi e di preghiera, ad una vita veramente contemplativa.
Contemplazione che non è appannaggio dei solo asceti ed eremiti, che non è data
dalla visione procurata dagli occhi del corpo, ma che è frutto dalla conoscenza
che avviene con tutte le energie e le facoltà dell’uomo: la mente, il cuore,
l’anima, lo spirito, i sentimenti, i sensi esterni e quelli interni. L’uomo,
ogni uomo, è dunque chiamato alla visione di Dio, cioè a conoscerlo sfruttando
tutte le capacità di cui dispone e tendendo alla capacità massima dell’amore,
perché Dio, che è amore, non si può conoscere al di fuori dell’amore stesso.
È chiaro che
l’uomo può fare la conoscenza di Dio, contemplarlo, vederlo, solo nella misura
delle sue possibilità, dell’estensione delle facoltà percettive della sua
anima, della sua mente e del suo cuore, e non nella misura dell’estensione di
Dio stesso, perché Dio è infinito nell’estensione delle sue perfezioni. Questo
però non vuol neppure dire che Dio è percepibile solo parzialmente, perché non
ha parti, ma è l’Uno semplice e il Tutto perfetto. Ciò significa, in poche
parole, che la visione di Dio dipende dalle possibilità interiori dell’uomo che
lo rendono capace di scoprire Dio in misura proporzionale alla santificazione
dell’anima, «quella santificazione, senza
la quale nessuno mai vedrà il Signore»[38].
Ecco perché è necessario a tutti, e non solo al monaco o all’eremita che vivono
in una cella solitaria, il duro cammino dell’ascesi. Perché finché l’uomo non
ha raggiunto la santità non è abilitato a vedere Dio. Se l’uomo non raggiunge
la santità perfetta, cioè se non si priva completamente della corruzione della
natura e vive nell’osservanza dei comandamenti divini e nell’amore del Cristo,
allora ineluttabilmente non vedrà Dio come egli è, in una visione chiara:
«Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre
e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai
conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire:
«Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le
parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me,
compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non
altro, credetelo per le opere stesse. […]
Se mi amate, osserverete i miei
comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché
rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può
ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli
rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora
un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e
voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e
io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi
ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a
lui»[39].
Davanti a
queste parole di Gesù, come davanti all’esempio di vita di grandi asceti come il
beato Manfredo Settala, verrebbe da chiedersi: ma è veramente possibile vivere
così? È possibile per l’uomo, per ogni uomo, imitare un simile grado di
perfezione e santità?
Lontana
dall’essere una domanda banale, questa ci conduce al cuore stesso del
cristianesimo. Cristo si è incarnato, ha offerto il suo corpo, ha versato il
suo sangue, ci ha fatto dono dell’unione a sé nel mistero della fede e nell’azione
dello Spirito Santo, affinché possiamo raggiungere, attraverso di Lui, la
santità perfetta, quella che ci abilità, non soltanto alla visione di Dio: «Verrò e mi manifesterò a lui», ma anche all’unione
e alla vita con Lui: «siete stati lavati,
siete stati santificati, siete stati giustificati nel Nome del Signore Gesù
Cristo e nello Spirito del nostro Dio»[40];
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e
il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»[41].
Conclusioni
Che cosa ha da dire al mondo e alla Chiesa di oggi la
vita di un povero eremita medievale? E, in particolare, quanto c’è di attuale e
significativo nel delicato rapporto tra fuga dalla società e carità, tra
solitudine e comunione, tra eremo e mondo?
L’ottavo centenario della morte del beato Manfredo
Settala ci offre l’occasione per scoprire, alle radici della sua autentica
esperienza ascetica, l’intreccio profondo tra la comunione con l’Eterno e la
comunione con i fratelli nella storia. Dopo un periodo di vita trascorso in
prima linea nell’apostolato attivo, immerso tra le vicende sociali e religiose
più significative della sua epoca, Manfredo scelse la vita eremitica non per fuggire dalla storia ma per anticipare, già in questo eone, la vita
escatologica a cui ogni buon cristiano tende con tutto se stesso.
Giovanni Climaco consiglia a chiunque voglia cercare
la pace e l’intimità con il Signore, di chiudere la porta della cella al corpo,
la porta della bocca alle parole, la porta del cuore ai pensieri[42].
Il beato Manfredo, che ha messo in pratica questo consiglio, ci sprona a fare
altrettanto. Invita la Chiesa
e l’uomo di oggi a non stancarsi di cercare Cristo. La via da lui percorsa può
essere attraversata anche da noi. È la via per pervenire alla pace, al vero
silenzio, in quel luogo riposto del cuore dove può risuonare la Parola vera, dove può
venire ad abitare il Verbo, il Cristo. Non è ovviamente necessario che tutti
abbandonino le loro case per ritirarsi a vivere sui monti, nei boschi o nei
deserti. Il vero eremo è quello interiore, il vero silenzio è quello del cuore.
Già il beato padre Ammone avvertiva: «Vi
è chi passa cento anni in una cella e non impara mai come viverci»[43].
Manfredo non solo ha imparato a vivere nella solitudine della cella, ma ha
appreso la difficile arte di divenire lui stesso cella dello Spirito,
abitazione di Dio, luogo di vera comunione. La sua vita, come quella di ogni
autentico eremita, è di monito a tutta la Chiesa, poiché essi – come dice san Giovanni
Crisostomo – «sono lampade che
illuminano tutta la terra, muraglie che circondano e difendono le città. Se
essi sono andati ad abitare i deserti, è stato per insegnarci a disprezzare il
tumulto del mondo. Essi infatti, forti come sono, possono godere della
tranquillità anche in mezzo alla tempesta. Noi invece abbiamo bisogno di calma
e tranquillità, agitati come siamo da ogni parte; abbiamo bisogno di un po’ di
respiro tra queste onde che si accavallano le une alle altre. Affrettiamoci
dunque a visitare spesso questi uomini, per purificare le nostre continue
macchie con le loro preghiere e i loro insegnamenti. Questo è il modo migliore
per trascorrere la vita presente e ottenere in avvenire i beni eterni, per la
grazia e l’amore del nostro Signore Gesù Cristo. Per lui e con lui siano al
Padre, insieme allo Spirito Santo, gloria, potere e onore, ora e sempre e per i
secoli dei secoli. Amen»[44].
* (Articolo di p. Michele Di Monte apparso sulla RIVISTA TEOLOGICA DI LUGANO, di Novembre 2017)
[1]
Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, Gribaudi,
Torino 1978, p. 320.
[2]
Cfr. Ap 21, 1-22, 15.
[3]
Cfr. Beato Paolo Giustiniani, F A
3, tr. it. in J. Leclercq, Il richiamo dell’eremo, Scritti
Monastici, Praglia 2005, p. 25.
[4]
Os 2,16.
[5] Sant’Agostino,
Commento al Vangelo di san Giovanni,
Vol. I, Città Nuova, Roma 1965, pp. 271-272.
[6]
L’amore e la stima per la vita eremitica – che pure hanno accompagnato la Chiesa latina nei suoi
primi tredici secoli di vita –, a partire dal XVI-XVII secolo e poi con la
rivoluzione francese e l’illuminismo, saranno progressivamente mutati in
diffidenza, disprezzo e oblio. È emblematico che dal rinascimento in poi la Chiesa vedrà comparire
soprattutto forme di vita consacrata legate alla vita apostolica. È molto
significativo rilevare come nel Codex
iuris canonici del 1917 la vita eremitica non era più né riconosciuta né
ritenuta una forma di vita consacrata.
[7]
Dn 3, 20-90.
[8]
Gv 20,16.
[9] Già a partire dal X secolo, di fronte alla decadenza
della Chiesa e alla rilassatezza della vita delle grandi abbazie, si assiste ad
un rifiorire della vita eremitica (san Romualdo a Camaldoli, san Giovanni Gualberto
a Vallombrosa, san Bruno alla Certosa ecc). Cfr. L’eremitismo in occidente nei secoli XI
e XII, Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto – 6 settembre 1962, Università
del Sacro Cuore, Milano; Ricerche sugli eremiti milanesi nel medioevo, in Ricerche
storiche sulla chiesa ambrosiana, Vol. i,
Milano 1970, pp. 89-119. M. Tagliabue, Eremitismo, in Dizionario
della Chiesa Ambrosiana, vol. ii,
Ned, Milano 1988, pp.1127-1129.
Michele Di Monte, La
via della solitudine. Manfredo
Settala sacerdote ed eremita, Fede & Cultura, Verona 2016, pp. 152-179.
[10]
Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, (Antica versione
anonima latina), a cura di G. Garrite,
tr. it. P. Citati - S. Lilla,
Mondadori, Milano 1974, cap. 93.
[11]
Cfr. E. Trubeckoj, Contemplazione nel colore. Tre studi
sull’icona russa, Paoline, Milano 1988.
[12]
Si inserisce in questa linea l’antico uso della liturgia ambrosiana, presente
già a partire dal V sec., di proclamare durante le sante Messe delle feste dei
santi, in luogo della lectio profetica,
cioè della lettura dell’Antico Testamento, una lettura agiografica. Cfr. C. Magnoli, Leggendario, in Dizionario di
liturgia ambrosiana, a cura di M. Navoni,
NED, Milano 1996.
[13]
Per l’elenco delle fonti si veda D. Sesti,
Il culto pubblico al beato Manfredo
Settala venerato nella chiesa Plebana di Riva san Vitale, Libreria Moderna,
Mendrisio 1917, pp. 36-51.
[14]
Cfr. Michele Di Monte, La via della solitudine. Manfredo Settala sacerdote ed eremita,
Fede & Cultura, Verona 2016, pp. 168-174.
[15] Cfr. E. Angeleri, Pieve di Settala, in Dizionario della
Chiesa Ambrosiana, Vol. v, NED, Milano 1988, pp. 3361-3364. M. P. Alberzoni, Enrico Settala, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, Vol.
II, Ned, Milano 1988, pp.1108-1111. A. Majo, Storia della Chiesa ambrosiana. Dalle origini ai giorni nostri,
NED, Milano 1995, pp.206-217.
[16]
In realtà solo due fonti su quindici parlano di un ministero in cura d’anime
del beato Manfredo. Il P. L. Tatti
in Gli annali sacri della città di Como,
Libro VII della Decate Seconda, Como 1683, lo dà come «Curato nella Terra di Cuazzo»; il Manoscritto Triulzio De Ecclesia Mediolanensi, Milano 1762,
come parroco di Cuasso al Monte.
[17]
La vicina Valganna, infatti, ancora oggi divisa dal territorio ecclesiastico di
Arcisate e annessa al decanato di Varese, si era staccata alla fine dell’XI
secolo quando, con decreto del 2 novembre 1095, l’Arcivescovo Arnolfo III
concesse al monastero di san Gemolo in Ganna l’autonomia dalla Pieve di
Arcisate e dal suo Prevosto Mons. Adamo, e il pieno potere sulle terre
dell’intera Valganna. Cfr. R. Comolli, L.
Zanzi, Tracce di storia
dell’abbazia di san Gemolo in Valganna, Nicolini Editore, Gavirate 1999.
[18]
Così riporta il Giulini: «I nostri,
avendo già scorsa la
Martesana vollero tentare qualche cosa anche nel Contato del
Seprio. Già avevano de’ militi e de fanti in Mozzate; altri ne posero in
Crenna, ed in Appiano. […] Di poi l’arcivescovo stesso entrò in Varese con
cento militi, i quali occuparono Arcisate, Induno e Biandrono, e stabilirono
colà i loro quartieri d’inverno, con molto danno dei Sepriesi», in G. Giulini, Memorie spettanti alla storia, al governo e alla descrizione della
città e campagna di Milano nei secoli bassi, Vol. III, Milano 1854, p. 569.
Riguardo al patteggiamento della pieve di Arcisate nei confronti
dell’imperatore, si veda L. Brambilla,
Varese e il suo circondario, Vol. II,
Varese 1872, p. 137. È proprio nella circostanza di questa campagna militare
che il presule ambrosiano consacrò solennemente la chiesa dell’abbazia di san
Gemolo in Valganna che, a differenza del territorio circostante gli era rimasta
fedele.
[19]
A. Bosisio, Storia di Milano, Giunti-Martello, Milano 1978, p. 102.
[20]
Cfr. M. Mascetti, San Gerardo. Rivisitazione storica,
Dialogolibri, Olgiate Comasco 2007, pp. 161-180.
[21]
San Gregorio Magno, Dialoghi, I, I, 6.
[22]
Questo, unitamente al miracolo del ritrovamento del corpo di san Gerardo, sono
gli unici miracoli citati dalle fonti rinascimentali; cfr. D. Sesti, Il culto pubblico…, pp. 37.
[23]
San Gregorio Magno, Dialoghi, IV, XVI, 5.7. Ancora più
famoso l’episodio, narrato dallo stesso Gregorio, in cui il santo padre
Benedetto da Norcia vide, nel cuore della notte, «L’anima di Germano, vescovo di Capua, portata in cielo dagli angeli
dentro una sfera di fuoco», cfr. Dialoghi,
II, 35, 2-3; lo stesso episodio è ripreso in IV, VIII.
[24]
Vite di santi egiziani, a cura di B. Pirone, Edizioni Terra Santa, Milano
2012, p. 135.
[25]
Citato in D. Sessi, Il culto pubblico…, p. 50.
[26]
San Girolamo, Vita Pauli, XIV-XV; tr. it. a cura di G. Grandi, Tre eroi del
deserto, Scritti monastici, Praglia 2015, p. 122.
[27]
Cfr. Gen 1,26.
[28]
Sant’Ireneo di Lione, Contro le eresie, V, 6, 1
[29] Col 2,
9.
[30]
San Massimo il Confessore, Centurie Gnostiche, II, 88, tr. it. in La
Filocalia, Vol.
IV, Gribaudi, Torino 1987, p. 161.
[31] Cfr. Gv
15, 18-21; Gv 17, 14-16.
[32]
cfr. G. Mozio Compagnoni, Campane, in Dizionario di liturgia ambrosiana, NED, Milano 1996, pp. 94-98.
[33]
San Macario, Omelie, V, 8-9, tr. it. in Pseudo-Macario,
Spirito e fuoco. Omelie spirituali, a
cura di L. Cremaschi, Qiqajon,
Bose 1995, pp. 119-120.
[34]
La pergamena, che porta la data del 28 aprile 1387, è custodita negli archivi
parrocchiali di Riva san Vitale. Per il contenuto della pergamena e una
ricostruzione dettagliata del culto pubblico del beato Manfredo Settala si
veda: D. Sesti, Il culto pubblico al b. Manfredo Settala,
venerato nella chiesa plebana di Riva san Vitale, Tipografia e Libreria
Moderna, Mendrisio 1917.
[35] Giovanni Damasceno, La fede ortodossa IV, 15.
[36] Ibid, IV, 16-17.
[37]
A. Piovano, Monachesimo nel mondo. Testimonianze di santità laica nella tradizione
spirituale russa, Paoline, Milano 2010, p. 26.
[38] Eb 12,
14.
[39] Gv 14,
8-21.
[40] 1 Cor
6, 11.
[41] Gv 14,
23.
[42]
Giovanni Climaco, Scala del Paradiso, 27,19.
[43]
Vita e detti dei padri del deserto, a
cura di L. Mortari, Città Nuova, Roma 1990,
Poemen 96, pag. 396.
[44]
Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, Città
Nuova, Roma 1967, pp. 182-183.
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