1. INDICAZIONI PER L’ACCETTAZIONE DEGLI ASPIRANTI ALLA VITA
MONASTICA NEI MONASTERI DELLA TEBAIDE
Dall’esposizione delle norme da osservare per le preghiere e per la recita dei Salmi nelle riunioni di ogni giorno e nei vari monasteri, noi passeremo ora a trattare, per esigenze di ordine progressivo, della formazione di colui che intende rinunciare al mondo. Noi cercheremo anzitutto di esporre brevemente le condizioni poste a coloro che desiderano consacrarsi a Dio nei monasteri, associandovi insieme alcune regole proprie degli egiziani e alcune proprie dei Tabennesiti, il cui monastero si trova nella Tebaide (Nota: A Tabennesi, nell’Alto Egitto, Pacomio aveva fondato nel 323 il suo primo monastero di vita cenobitica.). Questo centro, quanto, per numero, supera tutti gli altri, altrettanto si distingue per il rigore di vita che vi si conduce, poiché in esso più di cinquemila fratelli vivono sotto la direzione di un solo abate, ed è tanta l’obbedienza con cui un numero così straordinario di monaci vive sottomesso al proprio superiore, quanta uno solo di noi potrebbe prestarne a un altro, oppure esigerne, fosse pure per breve tempo.
2. LA PERSEVERANZA DI QUEI MONACI DURA FINO
AL TERMINE DELLA LORO VITA IN MODO ESEMPLARE
Io ritengo di dover anzitutto premettere in che modo questa
loro ininterrotta perseveranza e questa umile loro soggezione riesca a durare,
e attraverso quali forme essa si maturi, visti gli effetti, per i quali essi
perseverano nel cenobio fino alla più tarda età. Tale perseveranza è talmente
avanzata che in nessuno, una volta entrato nei nostri monasteri, per quanto mi
riesce di ricordare, è riuscito a osservarla anche solo per un anno intero.
Così, dopo aver bene sottolineato quali sono gli inizi della loro rinuncia, noi
potremo facilmente comprendere come mai i princìpi fondamentali di una vita
iniziata così li aiutino a raggiungere le sommità di una perfezione tanto
sublime.
3. PROVE E DIFFICOLTÀ IMPOSTE AI NUOVI
POSTULANTI
1. Pertanto chiunque aspiri a essere ammesso a sostenere la
disciplina del monastero, non sarà accolto prima d’aver trascorso dieci giorni
e anche di più alle porte del convento, dando così le prove della sua
perseveranza e della sua aspirazione, come pure della sua umiltà e della sua
sapienza. Una volta postosi con le ginocchia a terra davanti al passaggio dei
fratelli, da tutti intenzionalmente respinto e disprezzato quasi si trattasse
di uno che chiede di essere ammesso al monastero non per motivi religiosi, ma
solo per necessità, divenuto pertanto bersaglio di ingiurie e di biasimo, dovrà
dare prove sicure della sua costanza e dimostrare quale sarà il suo futuro
comportamento nelle tentazioni e nel saper tollerare le ingiurie a lui
inflitte. Quando poi, dopo aver sofferto le prove del fervore del suo spirito,
egli sarà stato accolto, con somma cura si dovrà indagare se in lui rimane
alcun segno di attaccamento ai beni già posseduti, o anche al possesso di un
solo denaro.
2. È infatti fin troppo noto che nessuno potrebbe durare a
lungo sotto la disciplina di un monastero, e neppure acquistare la virtù
dell’umiltà e dell’obbedienza, come pure rassegnarsi alla povertà e alle
ristrettezze del convento, se egli fosse cosciente di poter nascondere una
somma di denaro per quanto ridotta: in tal caso, non appena un’occasione
qualunque provocherà in lui una reazione anche minima, egli, confidando
nell’uso di quella pur piccola somma, immediatamente fuggirà dal monastero come
il sasso lanciato dalla fionda rotante qua e là.
4. LE RICCHEZZE, RINUNCIATE DAI NUOVI ENTRATI, NON VENGONO
ACCETTATE IN POSSESSO DEL MONASTERO
E proprio per questo motivo essi non accettano dai nuovi
aspiranti denaro che potrebbe servire a beneficio del monastero. Il motivo si
spiega anzitutto col fatto che il donatore, insuperbito per la confidenza di
questa sua donazione, non si degni di mettersi a pari con i fratelli più
poveri. La seconda ragione occorre cercarla nel fatto che l’interessato,
proprio per quella sua elargizione, non riesca a discendere all’umiltà voluta
da Cristo e a perseverare sotto la disciplina del monastero. Una volta che egli
abbia deciso di uscirne, perché divenuto molto tiepido, farebbe di tutto per
riavere tutto quello che egli, nei primi giorni della sua rinuncia, aveva
offerto ancora pieno del suo fervore spirituale, pronto però adesso ad esigerlo
non senza danno del monastero e con spirito sacrilego. Purtroppo, dopo molte
esperienze del genere, essi sono stati indotti a tenere tale condotta. In
effetti, in altri monasteri, dove non si era messa in atto questa cautela,
alcuni, già accolti con certa fiducia, tentarono poi di riavere quello che
avevano apportato e che ormai era stato destinato ad opere di Dio, e questo
avvenne non senza grave scandalo.
5. LE NUOVE RECLUTE DEPONGONO IL VECCHIO ABITO E NE RIVESTONO
UNO NUOVO
Perciò, quando qualcuno è accolto, viene privato di ogni suo
bene posseduto in precedenza, al punto che non gli si permette nemmeno di
continuare a indossare gli indumenti di cui prima era rivestito. Condotto in
mezzo all’assemblea dei fratelli, egli viene spogliato dei propri abiti e
rivestito, per mano dell’abate, del vestito proprio del monastero. In questo
modo egli rimarrà persuaso non solo di essere stato spogliato di tutti i beni
in precedenza posseduti, ma anche di essere disceso al livello della povertà e
dell’indigenza di Cristo, una volta che egli abbia deposto ogni lusso mondano.
Così dovrà essere convinto di doversi sostentare non con le ricchezze
acquistate con le arti del mondo e messe in serbo con discutibile fedeltà ormai
passata; al contrario, dovrà ricevere il compenso del suo servizio dalle pie e
sante elargizioni del monastero, e solo con questi mezzi egli dovrà in avvenire
essere provvisto di vitto e di vestito, persuaso di nulla possedere e di non
dover essere preoccupato per il domani, secondo il precetto del Vangelo (cf. Mt
6, 34); non dovrà arrossire di trovarsi nello stesso stato dei poveri, ed è
quanto dire, allo stesso grado del corpo di tutti i fratelli, nel cui numero si
è inscritto Cristo e per i quali Egli non è arrossito di chiamarsi fratello; al
contrario il monaco si glorierà di essere stato fatto compartecipe della
eredità di Cristo e di essere stato ammesso tra i suoi familiari.
6. I VECCHI ABITI, GIÀ DEPOSTI, VENGONO CONSERVATI PER UN
CERTO TEMPO. IL CONGEDO DEGLI INDEGNI
Gli abiti deposti sono consegnati all’economo del monastero,
quindi vengono custoditi finché non si constati con sicurezza il profitto del
giovane monaco nella professione e nella capacità della sua pazienza
nell’affrontare le più diverse tentazioni e prove. In seguito, quando sarà
evidente che egli è in grado di poter durare in quella vita nonostante il corso
del tempo, e di perseverare con lo stesso fervore del tempo iniziale, solo
allora i suoi vestiti saranno dati in dono ai poveri. Se invece i monaci
sorprenderanno in lui qualche tendenza alla mormorazione oppure la colpa della
disobbedienza, anche se piccola, dopo averlo fatto spogliare della veste del
monastero, di cui era stato coperto, fattigli indossare i vestiti già messi in
disparte, lo obbligano ad allontanarsi. Di fatto non è permesso ad alcuno di
allontanarsi con quello che ha ricevuto, e neppure tollerano che continui a
indossare quegli stessi vestiti colui che essi hanno constatato essere venuto
meno alle regole della sua professione iniziale. Inoltre a nessuno è concessa
la facoltà di andarsene liberamente: in tale caso egli, approfittando della
notte più profonda, se ne andrà come un servo fuggitivo; oppure, una volta
giudicato sicuramente indegno della vita e della professione monastica, verrà
dimesso con note di confusione, dopo aver deposte le vesti del monastero in
presenza di tutti i fratelli.
7. UNA VOLTA ACCOLTI, GLI ASPIRANTI NON VENGONO INSERITI
SUBITO NELLA COMUNITÀ DEI PROFESSI, MA NEL SERVIZIO DEGLI OSPITI DEL MONASTERO
Quando dunque qualcuno è stato accolto e riconosciuto
perseverante, come in precedenza abbiamo rilevato, una volta che abbia deposto
i propri abiti e abbia indossato la veste del monastero, non gli si permette
subito di essere aggregato alla comunità dei fratelli, ma viene affidato alla
guida di un anziano il quale tiene la sua dimora in luogo appartato e non lontano,
ha cura dei pellegrini e di quanti sopravvengono e presta loro ogni servizio
per un accoglimento premuroso e umano. L’aspirante, trascorso un anno intero in
quest’incarico, e dopo che egli avrà prestato per i pellegrini il suo doveroso
servizio senza provocare alcun biasimo sul proprio conto, raggiunti ormai i
primi gradi della pazienza e dell’umiltà attraverso l’esercizio di quegli
uffici, e fattosi ormai riconoscere maturo in quella lunga operosità, da quel
momento egli verrà destinato, per essere aggregato nel numero dei fratelli, a
un altro anziano, il quale presiede a un gruppo di dieci giovani a lui affidati
dall’abate perché li educhi e li guidi secondo quanto si legge che venne
praticato da Mosè nell’Esodo (cf. Es 18,25).
8. I GIOVANI MONACI DOVRANNO IMPARARE ANZITUTTO A RINUNCIARE
ALLA PROPRIA VOLONTÀ
La preoccupazione maggiore dell’istruzione e dell’educazione
affidata al nuovo maestro sarà anzitutto quella di insegnare al suo allievo a
vincere la sua propria volontà: sarà questa la strada, per la quale egli
riuscirà a raggiungere in seguito i più alti gradi della perfezione. Tenendolo
esercitato in questo campo con diligente attenzione, egli tenterà continuamente
e intenzionalmente di fargli eseguire tutto quello che egli s’accorgerà essere contrario
al suo carattere. Per esperienze ormai provate da tanti esempi è già una
convinzione fondata che un monaco, e specialmente i più giovani, non
riusciranno nemmeno a frenare i più elementari stimoli della concupiscenza, se
prima non avranno imparato a mortificare la propria volontà grazie
all’obbedienza. Perciò essi dichiarano che nessuno, se prima non avrà imparato
a dominare la propria volontà, riuscirà a mortificare la propria collera, la
propria tristezza e lo spirito della fornicazione, e neppure sarà in grado di
raggiungere la vera umiltà del cuore né una costante unità con i fratelli e
neppure una ferma e continuata volontà di concordia.
9. I GIOVANI NON DEVONO NASCONDERE AL LORO
SUPERIORE NEMMENO I PROPRI PENSIERI
Basandosi dunque su questi primi criteri formativi essi
s’adoperano, come ricorrendo ai primi elementi dell’istruzione elementare, a
istruire questi principianti e a condurli verso il cammino della perfezione. È
una vita molto adatta per arrivare a ben distinguere se essi sono fondati sulle
basi di una umiltà vera, oppure falsa e immaginaria. Ora, per giungere
facilmente a un tale risultato, vengono naturalmente convinti a non tener
nascosto in nessun modo, per falso pudore, alcun pensiero che s’annidi con
lusinga nel loro cuore, e sono indotti invece a manifestarli immediatamente al
loro superiore, non appena se li vedono sorgere. Vengono invitati a diffidare
del loro proprio giudizio intorno a quei pensieri; e a ritenerli buoni o
cattivi così come, dopo attento esame, li avrà ritenuti e giudicati lo stesso
padre anziano. Ne risulta che l’astuzia del demonio non potrà in nessun modo
assalire il giovane, approfittando della sua inesperienza e della sua
ignoranza, e tanto meno potrà circuirlo con le sue frodi, vedendolo difeso dal
discernimento del più anziano, e non chiuso nell’esperienza sua propria. Così
il nemico non riuscirà a indurre il giovane a nascondere al padre anziano le
sue suggestioni che, come frecce di fuoco, il demonio avrà cercato di lanciare
in direzione del suo cuore. Il nemico, nonostante tutta la sua astuzia, non
riuscirà a ingannare e far cadere il giovane in altro modo, se non col
convincerlo a nascondere al padre anziano i suoi pensieri per orgoglio o per
vergogna. I nostri padri indicano come un segno generale, evidente e
dimostrativo della condotta diabolica, quando noi ci asteniamo per vergogna di
manifestarla al padre anziano.
10. NECESSITÀ DELL’OBBEDIENZA
Ciò premesso, la regola dell’obbedienza è praticata con tale
scrupolo che i giovani, senza che il superiore ne sia informato e lo permetta,
non solo non osano uscire dalle loro celle, ma neppure presumono, senza esserne
autorizzati, di provvedere alle comuni necessità naturali. S’affrettano a
eseguire tutto quello che da lui viene comandato come se fosse ordinato da Dio
e senza alcuna discussione. Accade talvolta che essi accolgano ordini anche di
cose impossibili, e lo fanno con tale fede e con tale devozione da indursi a
eseguirli fino in fondo con tutto l’impegno e senza alcuna esitazione del cuore,
e senza per questo accentuarne l’impossibilità per il rispetto che essi nutrono
nei confronti del loro superiore. Io tralascio qui, per ora, di parlare con
maggiori particolari della loro obbedienza. Intendo di trattarne a suo luogo,
tra breve, ricorrendo anche agli esempi, se, per le vostre preghiere, il
Signore me ne concederà la possibilità. Per ora continueremo a parlare delle
altre loro istituzioni, tralasciando di richiamarci a quelle che in questa
regione o non vengono pretese nei monasteri o non possono esservi praticate,
come abbiamo promesso di fare nella nostra breve Prefazione; tale si può
considerare l’esclusione di indumenti di lana per attenersi unicamente a quelli
di lino, e questi mai raddoppiati; s’aggiunga che ogni superiore, per quanto riguarda
il suo gruppo di dieci soggetti, provvede al ricambio ogni qualvolta s’avvede
che i loro vestiti hanno bisogno di pulizia.
11. FRUGALITÀ DEI MONACI
Io lascerò pure di parlare, per gli stessi motivi, di un
genere arduo e sublime di continenza da essi praticato: essi considerano un
elemento di estrema delizia, qualora venga presentato mentre i fratelli sono a
mensa, certa erba condita con sale, da essi chiamata labsanion, lavata prima
con l’acqua, come pure altre cose simili che in questa nostra regione non sono
compatibili né per il clima né per la nostra debolezza fisica. Io mi atterrò
unicamente a quegli elementi permessi dalla fragilità delle nostre persone e
dalle condizioni di queste località, a meno che non siano d’impedimento né la
debolezza dello spirito né la tiepidezza della mente.
12. AL MINIMO SEGNALE DELL’OBBEDIENZA
OCCORRE LASCIARE TUTTO
Pertanto, quando essi stanno chiusi nello loro celle,
interamente dediti al lavoro o alla meditazione, non appena odono il battito
alla loro porta da parte dell’incaricato che con quel segnale, recato alle
diverse celle, invita alla preghiera o all’esecuzione di qualche lavoro, ognuno
d’essi, a gara, lascia il proprio posto al punto che uno, addetto all’esercizio
di scrivano, non oserebbe condurre fino al termine la lettera appena iniziata:
allorché giunge al suo orecchio il segnale di chi ha battuto alla porta, si
alza con tutta rapidità senza interporre alcuna dilazione, neppure per quanta
ne occorrerebbe per completare la figura di un’apice già cominciata; al
contrario, lasciando incomplete le prime linee della lettera già iniziata, egli
non si preoccupa tanto del compenso lucrativo del suo lavoro, quanto di
eseguire a puntino gli ordini dell’obbedienza con tutta la prontezza dell’animo
e col pensiero del buon esempio. E tale obbedienza essi l’apprezzano al di
sopra del lavoro manuale, della lettura e dello stesso silenzio e quiete della
cella, come pure di tutte le altre virtù, al punto di tutto posporre ad essa,
contenti di tollerare qualunque danno pur di non sembrare d’avere trascurato,
anche in minima parte, questo vantaggio.
13. OGNI POSSESSO PRIVATO È DA ESCLUDERE
Fra le altre loro istituzioni ve n’è una che io credo quasi
superfluo ricordare, ed è questa: a nessuno è permesso di possedere un piccolo
canestro o un piccolo paniere personale o qualche altro oggetto contrassegnato
con qualche indicazione come indice di proprietà individuale. Abbiamo
constatato in ogni parte che quei monaci vivono talmente spogli di tutto che,
se si eccettua il colobio, il maforte, i sandali, la melote e lo psiathion,
altro essi non hanno in proprio uso (Nota: Il colobio corrispondeva a una
tunica di lino; il maforte al cappuccio: la melote al mantelletto, e il
psiathion a una stuoia per dormire). Ora, mentre in altri monasteri è pure
concessa qualche altra larghezza, tuttavia anche in quegli stessi vediamo
praticata fino ai nostri giorni, in forma molto rigida, questa regola della
povertà al punto che nessuno osa, neppure a parole, definire sua qualunque cosa
(cf. At 4, 32), ed è considerato grande colpa il fatto che dalla bocca di un
monaco escano espressioni come le seguenti, e si parli perciò del «mio calice»,
delle «mie tavolette», della «mia tunica», e dei «miei sandali». Per una colpa
di tal genere occorre dare soddisfazione con una degna penitenza, anche nel
caso che qualcuno, per inavvertenza o per ignoranza, si sia lasciata sfuggire
dalla bocca qualche simile espressione.
14. ANCHE IL PROFITTO PER UNA MAGGIORE OPEROSITÀ NON COMPORTA
MAGGIORI PRIVILEGI
E intanto, benché ognuno di essi procuri al monastero col
proprio lavoro e col proprio sudore ogni giorno tanti guadagni da poter
supplire con essi non soltanto alle sue poche esigenze individuali, ma perfino
alle necessità di molti altri, tuttavia egli non se ne inorgoglisce, e tanto
meno approfitta dei suoi guadagni così larghi, che pur sono frutto dei suoi
sudori. Se si fa eccezione di due piccoli pani, del valore, sul luogo, di
appena tre denari, nessuno pretende per sé più di quello. Fra di loro - mi vergogno
anche solo a dirlo, e volesse Dio che nei nostri monasteri potessimo ignorarne
la realtà -, nessuno aspira a un genere di lavoro particolare e diverso da un
altro, e non solo di fatto, ma nemmeno col pensiero. E benché ognuno ritenga
come sua proprietà tutte le riserve del monastero e abbia cura e sollecitudine
per tutti i beni del convento come ne fosse il padrone assoluto, di fatto però,
allo scopo di preservare intatta la virtù della povertà da lui acquistata e che
si sforza di conservare fino alla fine perfettamente e integralmente, egli si
mantiene al di fuori di tutto e alieno da tutto, tanto da comportarsi come un
pellegrino e uno straniero in questo mondo (cf. 1 Pt 2, 11), e da ritenersi
come un addetto e un servitore del monastero, anziché un padrone di qualsiasi
cosa.
15. ECCESSI E ABUSI IN OCCIDENTE IN FATTO DI PROPRIETÀ
1. E allora che cosa dire di noi, in fatto
di abusi, dico di noi che, pur dimorando nei monasteri sotto il governo
premuroso e sollecito dell’abate, portiamo tuttavia con noi chiavi destinate ad
un uso personale e, senza sentirne vergogna, posta sotto i piedi ogni
considerazione e ogni rispetto della nostra professione, portiamo
sfacciatamente al dito degli anelli, con i quali facciamo mostra di altre cose
nascoste? Non ci bastano soltanto le cassette e le sporte, ma neppure gli
scrigni e gli armadi per accumularvi le cose da noi riposte, o quelle da noi
riservateci dopo l’abbandono del secolo. Talvolta può avvenire perfino che
oggetti di ben poco o nessun valore, noi li reclamiamo come nostra esclusiva
proprietà e ci eccitiamo a tal punto che, se qualcuno ha l’ardire di toccarne
uno anche solo con la punta di un dito, ci sentiamo presi da tale reazione
furiosa contro di lui da non saper trattenere, neppure a parole e senza
l’alterazione di tutta la nostra persona, l’agitazione del nostro animo.
2. Lasciando perciò da parte la nostra
debolezza e passando sotto silenzio quanto non conviene rilevare, atteniamoci
al precetto: «Non parli la mia bocca delle opere degli uomini» (Sal 16 [17],
4). E allora riprendiamo il discorso sulle loro virtù e su quello che noi, con
ogni sforzo, dovremmo cercare di imitare secondo il disegno che ci siamo
proposto. Noi quindi intendiamo ora esporre rapidamente e brevemente le loro
regole e i loro modelli in modo da giungere, una volta esaurito l’argomento,
alla descrizione di certa operosa attività, tutta propria degli anziani, e che
ci premuriamo con ogni cura di affidare alla memoria. E quanto ora ci
disponiamo a descrivere, intendiamo confermarlo con testimonianze validissime,
e tutto quello che da noi verrà dichiarato, troverà rispondenza nei loro esempi
e nella validità autorevole della loro vita.
16. NORME E MISURE PER LA CORREZIONE
1. Se ad alcuno avverrà di rompere, in
qualche caso, un vassoio di terracotta, quello che essi chiamano baucalide,
egli non compenserà quella sua negligenza in altro modo, se non con una
pubblica penitenza: allorché si saranno adunati tutti i fratelli per la
sinassi, egli implorerà il perdono prostrato a terra per tutto il il tempo
necessario per arrivare al termine dell’orazione, e soltanto allora egli
otterrà il perdono, quando, per ordine dell’abate, gli sarà ordinato di
rialzarsi in piedi. Nello stesso modo dovrà dare soddisfazione chiunque,
chiamato a compiere qualche lavoro o alla riunione consueta, arriverà con
ritardo oppure, nel cantare un Salmo, commetterà qualche errore, fosse pur
lieve.
2. Egualmente sarà soggetto a simile
penitenza, se avrà dato risposte inutili oppure con durezza o anche con
arroganza; se avrà compiuto con negligenza quanto gli era stato ordinato; se
avrà mormorato, anche per poco; se, preferendo la lettura al lavoro e
all’obbedienza, avrà compiuto gli uffici impostigli in modo trasandato; se, al
termine della sinassi, non si sarà raccolto sollecitamente nella propria cella;
se si sarà trattenuto, anche per poco, a parlare con qualche altro o si sarà
ritirato in disparte con lui per qualche tempo; se avrà tenuto la sua mano in
quelle dell’altro; se si sarà indugiato a parlare per qualche tempo con uno che
non è il suo compagno di cella; se si sarà messo a pregare con chi è stato
escluso dalla preghiera comunitaria; se avrà veduto o avrà tenuto qualche
conversazione, in assenza del superiore, con qualche parente o con qualche
amico secolare; se avrà tentato di ricevere una lettera o avrà cercato di
rispondervi, senza il permesso dell’abate.
Per queste inadempienze e altre simili si procede a
un’ammenda spirituale.
3. Vi sono poi altre mancanze che, presso di noi, non sono ammesse
con nessuna diversità e che, anche da noi, sono considerate con maggiore
riprensione. Si tratta delle colpe seguenti: insulti aperti; disprezzi
manifesti; reazioni impulsive; comportamento libero e incontrollato;
familiarità con donne; collera, risse, rivalità e litigi; pretese di un lavoro
particolare; segni d’avarizia; attaccamento e possesso di cose superflue, non
possedute da altri fratelli; nutrirsi fuori tempo e di nascosto di qualche
cibo; altre colpe simili.
Tali mancanze non sono punite con un’ammenda di natura
spirituale, come quelle accennate in precedenza, ma sono sottoposte alla pena
della battiture oppure alla decisione dell’espulsione dal monastero.
17. COME VENNE INTRODOTTO L’USO DELLA LETTURA DURANTE LA
MENSA. IL SILENZIO DEGLI EGIZIANI
Noi sappiamo che l’uso invalso e diffuso di tenere letture
sacre durante la refezione dei fratelli non deriva da una regola dei monaci
egiziani, ma dai cappadoci. Non v’è dubbio che il motivo di una tale decisione
non può essere derivato dal proposito di introdurre un esercizio utile allo
spirito, quanto piuttosto con l’intenzione di frenare le conversazioni inutili
e oziose, ma, più ancora, per togliere in radice ogni possibilità di contrasti,
facili a nascere specialmente quando si è a mensa. Essi non videro altro modo
più adatto per impedire tali inconvenienti. In realtà, presso gli egiziani, e
soprattutto presso i monaci di Tabennesi, tutti praticano un tale silenzio che,
per quanto sia così grande il numero di coloro che insieme si recano e si
siedono a mensa, nessuno oserebbe mettersi a parlare anche sottovoce, se si
eccettua il capo d’ogni gruppo di dieci; se poi egli s’accorgerà che sia
necessario recare qualche cosa alla mensa oppure ritirarla, interverrà,
ricorrendo di preferenza a un segnale anziché alla voce. E mentre tutti
attendono a rifocillarsi, osservano il silenzio con tanta cura che, abbassati i
cappucci fin sopra le ciglia perché i loro occhi non estendano lo sguardo
troppo liberamente e curiosamente qua e là, nulla riescono a vedere se non la
mensa e le vivande che vi sono depositate e che essi intendono prendere, al
punto che nessuno può notare né il modo né quanto cibo intende prendere l’altro
che gli sta vicino.
18. DIVIETO DI PRENDERE CIBO FUORI TEMPO
Prima e dopo la refezione regolare e comune si osserva con
cura straordinaria che nessuno, fuori della mensa, osi concedere qualche cibo
alle proprie labbra. Se essi camminano per i giardini e per i frutteti,
allorché i frutti pendono dolcemente dai rami degli alberi qua e là, e non solo
si offrono spontaneamente al desiderio di chi vi passa vicino, ma talvolta,
caduti per terra, restano come tra i piedi, pronti, anche solo a vederli, per
essere raccolti e così accontentare la voglia del desiderio, ebbene, anche
allora, quando l’opportunità e l’abbondanza suggerirebbero di soddisfare la
gola perfino ai più osservanti e ai più astinenti, essi ritengono di commettere
un sacrilegio, non soltanto nell'assaggiare qualcuno di quei frutti, ma perfino
nel toccarlo con la mano, salvo il caso in cui lo si porti per la refezione
comune e venga offerto pubblicamente, con il permesso dell’economo, come un
servizio reso ai fratelli.
19. I SERVIZI CHE VICENDEVOLMENTE E A TURNO SONO RESI DAI
FRATELLI NEI MONASTERI DELLA MESOPOTAMIA, DELLA PALESTINA E DELLA CAPPADOCIA
1. E perché non sembri che noi abbiamo
trascurato qualche aspetto intorno alle istituzioni dei monasteri, intendo ora
parlare brevemente anche dei servizi d’ogni giorno prestati ai fratelli in
altre regioni. Per tutta la Mesopotamia, la Palestina, la Cappadocia e per
tutto l’Oriente, ogni settimana i fratelli si succedono a turno per rendersi
vicendevolmente questi servizi. Il numero degli inservienti viene stabilito
secondo il numero dei componenti la comunità. Essi d’adoperano a compiere tali
servizi con tanta dedizione e con tanta umiltà, quanta non ne offrirebbe un
servo al proprio padrone, per quanto duro e prepotente. Non si accontentano dei
soli uffici richiesti dalla regola, ma si alzano anche in piena notte per
sollevare con il loro intervento coloro, a cui spetterebbe questa particolare
incombenza. In questo modo essi cercano, prevenendoli, di praticare di nascosto
quei servizi che dovrebbero essere compiuti dagli incaricati.
2. Ognuno di essi compie i servizi della
propria settimana fino alla cena della domenica; al termine della cena si
conclude il servizio reso durante tutta quella settimana. Allora, quando i
fratelli si radunano insieme per il canto dei Salmi che per consuetudine
vengono recitati prima del riposo della notte, coloro che hanno cessato il loro
compito, si dispongono per lavare i piedi a tutti, a turno, e intanto, come
compenso per la dedizione loro all’ufficio prestato per tutta la settimana,
implorano con tutta sincerità la benedizione, in modo che, dopo aver obbedito
al precetto di Cristo (cf. Gv 13, 14), la preghiera dei fratelli, unitamente
elevata, li accompagni: quella preghiera dovrebbe servire a compensare le loro
negligenze, a riparare i peccati commessi per umana fragilità e ad affidare a
Dio, come «un ricco sacrificio» (Sal 19 [20], 4), i servizi dedicati ai
fratelli in segno di devozione.
3. E così, al lunedì, dopo gli inni del mattino, essi
consegnano a quanti loro succedono gli utensili e i vassoi adoperati durante il
loro incarico. E quelli trattano gli oggetti ricevuti in consegna con una
sollecitudine così premurosa perché nessuno di essi rimanga danneggiato o
rovinato, da considerare perfino il più umile di quegli oggetti come una cosa
sacra, e da credere di dover rendere conto, non solo all’amministratore in sua
presenza, ma anche al Signore, se per caso, per loro negligenza, anche uno di
essi ne risultasse rovinato. E fino a qual punto giunga questa loro sollecitudine,
e con quale fedeltà e cautela essi la mettano in pratica, voi potrete
constatarlo anche da una sola testimonianza che io, a modo di esempio, ora
intendo addurre. Di fatto, come mi faccio un dovere di soddisfare il vostro
desiderio di aver un’esposizione completa su tutto anche a costo di ripetere in
questo mio libro informazioni già da voi assai ben possedute, tuttavia non
posso non temere di oltrepassare i limiti della brevità che ci siamo imposta.
20. ESEMPI DI OSSERVANZA ESTREMAMENTE RIGIDA
Durante la settimana, a cui uno dei fratelli era addetto,
l’economo della casa, passando, scorse tre granelli di lenticchie sfuggiti
dalla mano di quel fratello mentre si affrettava a prepararli per farli
cuocere: erano caduti in terra assieme a dell’acqua, con cui venivano lavati.
Immediatamente l’economo si recò dall’abate a riferirgli la cosa, e così quel
fratello, giudicato per cattiva amministrazione e negligenza in fatto di
proprietà sacre, venne escluso dalla preghiera comunitaria. E quella sua colpa,
dovuta a negligenza, non gli fu condonata, se non dopo averla espiata con
pubblica penitenza. E in realtà non solo essi sono convinti di non appartenere
più a se stessi, ma credono pure che tutto quello che ad essi appartiene sia
stato, di fatto, consacrato al Signore. Ne segue che ogni oggetto, una volta
entrato in monastero, deve essere adoperato con ogni cura come un oggetto
sacro. Hanno cura di tutto e trattano tutto con tanta fedeltà da essere
persuasi, con tutta fiducia, di ricevere dal Signore la ricompensa per atti
come questi: rimuovere dal suo posto un oggetto di poco valore, anche se poco
utile e trascurabile, e rimetterlo in luogo più adatto; riempire d’acqua una
brocca per poter offrire da bere a qualcuno, oppure raccogliere un fuscello di paglia
dal pavimento dell’oratorio o della cella.
21. UN ESEMPIO DI LAVORO SPONTANEO
Siamo informati del fatto seguente intorno ad alcuni fratelli, da noi ben conosciuti, che erano in servizio nella settimana a loro destinata. Ebbene, proprio in quei giorni, venne a mancare la legna con tale penuria da non sapersi come preparare le solite vivande ai fratelli, e allora, prima che potesse giungere la legna comperata, venne disposto, per ordine dell’abate, che i fratelli si accontentassero di cibi disseccati. Quella disposizione fu bene accolta da tutti, e nessuno poteva ormai ripromettersi l’arrivo di qualche alimento già cotto. Ma quei fratelli, quasi si sentissero defraudati del frutto e della ricompensa dovuta alle fatiche del loro ufficio, qualora nei giorni del loro servizio non avessero procurato ai fratelli le vivande consuete, s’imposero questa serie di fatiche spontanee e di stenti. In quei luoghi aridi e sterili non è possibile trovare legna in nessun modo, se non viene tagliata direttamente dagli alberi da frutto, poiché in quelle regioni non esistono boschi naturali, come da noi. Essi, perciò, percorrendo grandi distese, in cui non c’erano strade, e inoltrandosi fin nel deserto che porta al Mar Rosso, dopo aver raccolto in grembo piccoli rami e legnetti spinosi, qua e là dispersi dal vento, riuscirono a preparare, per effetto di questa loro spontanea dedizione, le vivande conformemente alla consuetudine di ogni giorno. Essi non sopportarono che nulla venisse meno del loro servizio con tanta generosità che, pur essendo del tutto giustificati per la mancanza della legna e per la disposizione dell’abate, tuttavia non vollero usufruire di questa licenza in vista del frutto e del premio che ne avrebbero ricavato.
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