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LA PREGHIERA DI SAN GIUSEPPE L'ESICASTA


Sarebbe troppo lungo citare tutte le spiegazioni dell’Anziano su questo argomento. Per lui la preghiera era importantissima. Egli si era interamente votato a lei. Tutta la sua vita, la sua evoluzione, l’applicazione, la foga, lo zelo, gli sforzi e tutto il suo essere erano sottomessi alla preghiera. Noi altri, umili, poveri e deboli per natura e per condizione, come possiamo descrivere questi misteri inaccessibili, così difficili da raggiungere e di cui siamo ignoranti?
Abbiamo osservato la sua vita dall’esterno, così come il modo impietoso che usava verso se stesso, e ne abbiamo ricavato un’impressione in base al suo comportamento. Tuttavia, chi potrebbe descrivere il suo mondo interiore, i suoi gemiti silenziosi e tutto ciò che offriva giorno e notte a Dio?
Attraverso l’espediente delle richieste ragionevoli potemmo ricavare qualche concessione nell’ambito della vita pratica che lo preoccupava. In nessun modo, però, potemmo farlo cedere in ciò che riguardava l’ordine e la regola della preghiera. L’osservanza minuziosa, la perseveranza nell’opera divina della preghiera, testimoniano la grandezza del suo zelo e i risultati che ne derivano erano evidenti. Secondo il giudizio dei Padri, il segno più evidente della spiritualità di un’anima è la preghiera continua come stato spontaneo e non come risultato di sforzi volontari.
L’Anziano, di eterna memoria, cha ha costruito la nostra educazione, insisteva molto sul valore e l’abbondanza dei frutti della preghiera. Spesso sottolineava: «E’ la stretta osservanza di questo comandamento e gli sforzi impiegati nella preghiera che vi apriranno le porte della preghiera», o ancora: «Questo difetto sarà per voi un ostacolo nella preghiera».
Attraverso le lettere pubblicate dal nostro caro fratello, l’igumeno del santo monastero di Filoteu, possiamo constatare la cura particolare che l’Anziano metteva nella preghiera. «La preghiera mentale è per me come un mestiere, scriveva l’Anziano ad un giovane; infatti, vi lavoro da più di trentasei anni», ossia, dal principio della sua vita monastica fino a quel momento. La facilità con la quale l’Anziano descriveva in dettaglio questa virtù eccellente, iniziando dal suo apprendistato, e passando per i diversi stadi, fino a giungere all’illuminazione e al rapimento nel quale conduce quelli che si impegnano a praticarla con zelo, testimonia il suo progresso in questo campo, ottenuto con la Grazia di Dio, così come nell’intelligenza dei misteri e delle qualità proprie della preghiera.
In un’altra lettera egli descrive la natura particolare della preghiera, scrivendo fra l’altro: «All’illuminazione seguono l’interruzione della preghiera e le frequenti contemplazioni; il rapimento dello spirito, la cessazione dell’attività dei sensi, l’immobilità e il profondo silenzio delle membra, ed infine l’unione di Dio e dell’uomo in un solo essere».
La pace dei pensieri (loghismoi), l’incontro con un altro mondo, il profondo riposo e la tranquillità delle membra, la sensazione di una leggera brezza, l’impressione di essere inondato di profumo spirituale, la luce increata che supera ogni candore: tutto questo faceva parte delle sue abituali esperienze e spesso ce ne parlava.
Si caratterizzava anche per la facilità con la quale descriveva le diverse tentazioni incontrate durante il combattimento spirituale, soprattutto nella via della pratica. Tali erano le impronte e le prove del valore eterno della tradizione patristica, che si può seguire e che si prolunga senza interruzione e senza alterazione dai primi secoli ad oggi.
La qualità paterna della Grazia della preghiera autentica, ricevuta dall’Anziano, era coronata dalla comunione con la sofferenza dell’umanità. La viveva intensamente, come noi constatammo, praticamente senza discontinuità. Spesso lo vedevamo immergersi tranquillamente in se stesso. Allora sembrava che non fosse più tra noi. L’espressione del suo volto si modificava, sospirava leggermente, rattristato. «Che cosa ti succede, Ieronda[1]?», gli domandavamo nella nostra curiosità giovanile. «Qualcuno soffre, ragazzi miei»,ci rispondeva.
La conferma di questo fatto arrivava sempre qualche giorno dopo, quando ricevemmo una lettera che recava la notizia di qualche dolore.
«Come avviene, Ieronda, che quelli che pregano sono più vicini degli altri?» Infatti, costatavamo che sentono maggiormente il loro prossimo quelli che, tramite la preghiera, ne sono concretamente vicini, anche se nascosti e sconosciuti. L’Anziano con le sue parole ci dimostrava l’universalità della preghiera, principale fattore dell’ecumenicità[2]. Con la preghiera si realizza l’unione perfetta di tutti in Dio. Può darsi che qualche volta gli mancasse la capacità di potersi esprimere con termini filosofici propri della teologia quando parlava di ciò che sentiva. Ma, in modo attraente, frutto della libertà della sua esperienza, ci sminuzzava ogni aspetto del combattimento spirituale della vita in Dio in un modo generale e anche, più in particolare, tutto quello che si riferiva alla preghiera. «L’inizio del progresso verso la preghiera pura – ci diceva – è il combattimento contro le passioni: è impossibile, per quelli che ne sono preda, progredire nella preghiera. Durante il durissimo combattimento contro le passioni, mentre il combattente lotta metodicamente e con diligenza, può accadere che le passioni trionfino, sia a causa della mancanza d’esperienza, visto il carattere sconosciuto della lotta, sia a causa della debolezza. Malgrado tutto, quella non ostacola la presenza della Grazia della preghiera. La vittoria della Grazia, tuttavia, è impossibile quando il dominio delle passioni deriva dalla negligenza o quando è implicata la vanità. Lo spirito, nella misura in cui è libero dalle passioni, aiutato dalla Grazia, ritrova coraggio e forza per combattere i pensieri (loghismoi) e restare perseverante nella preghiera e nella contemplazione di Dio».
Tutto ciò che abbiamo visto fin qui, l’Anziano lo considerava come momento iniziale della prassi. Egli attribuiva la preghiera autentica, o piuttosto la contemplazione, quale dono perfetto di Dio, al periodo della purificazione del cuore che segue l’illuminazione dello spirito. L’attenzione del cuore nella preghiera prolungata e ininterrotta, costituisce il più difficile di tutti gli esercizi ascetici e di tutti i combattimenti. Essa provoca una sensazione durevole all’interno del cuore. Parallelamente, anche lo spirito, per il suo dolore (penthos) ininterrotto, recupera l’illuminazione naturale divenendo «spirito di Cristo» (1 Cor 2, 16), quando la sensazione di Dio, dimorante e agente nell’uomo, lo trasporta, piccolo e limitato quale è, nella sfera della rassomiglianza a Dio: «Ho detto: Voi siete dei, siete tutti figli dell’Altissimo» (Sal 81, 6). Di conseguenza, come una totalità universale, egli ingloba il prossimo in lui e comunica con lui: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» seguendo la frase dell’Apostolo (Rm 12, 15).
Per assicurare le condizioni pratiche richieste per la preghiera, necessarie per un buon inizio, soprattutto quando manca l’assistenza di un Anziano esperto, l’Anziano insisteva sulla ricerca dell’esichia, la reclusione, l’isolamento e tutto ciò che vi si rapporta. Tuttavia non attribuiva la riuscita di questo santo disegno a questi fattori, ma essenzialmente all’incontro personale con Dio e al rimanere continuamente con Lui.
«L’uomo, diceva, che si mette in cammino verso Dio nella sottomissione e nell’obbedienza, con una fede retta, si porta all’incontro e alla dimora costante con Lui: ciò si chiama “teologia”». Mi sforzo di esprimere la grandezza e l’ampiezza della perfezione spirituale in Cristo, come l’ho vista e sentita dal nostro Anziano. Ricordo che questa non è cosa facile da compiersi, né è alla portata del primo venuto, in modo improvvisato. Alludo alla “moda” attuale che hanno i sedicenti “specialisti” autoproclamati, che parlano senza conoscenza della preghiera mentale, della luce increata, della deificazione, ecc. Costoro sono uomini ignoranti, non iniziati, mancanti di esperienza nel campo della fede e della vita cristiana conforme ai Santi Padri; essi si illudono, e sbagliano. Si appoggiano su una conoscenza intellettuale più che su una esperienza vissuta. La realtà del cristianesimo non è nella magia, né nello yoga, né in qualunque metodo strano e contrario al cristianesimo.
Il cristianesimo non è una questione di sperimentazione o una chimera intellettuale, destinato ad ottenere in noi un risultato, frutto d’immaginazione o una pseudo sensazione quale sarebbe una sedicente contemplazione di Dio.
Non si può contemplare Dio da lontano; Egli fa la sua dimora nelle anime purificate e diviene percettibile a partire dalle sue energie increate. Il vero cristiano si basa in primo luogo sul comandamento di Cristo: «Amerai il Signore tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutto il tuo spirito, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10, 27). Contemporaneamente si allontana con tutte le sue forze dal male in generale e da suo padre, il demonio, «detestandoli con odio implacabile» (Sal 138, 22). Si affretta, con l’anima come con il corpo, a metterli in pratica. Se l’uomo si stabilisce con molta umiltà e timore in questa disposizione incontrerà il Dio rivelato, con l’aiuto di quella Grazia con la quale ha compiuto questi precetti. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23), ha detto il Signore. I veri fedeli sperimentano la comunione con Dio e risentono in modo organico l’energia delle influenze divine, poiché portano in tutto il loro essere, incessantemente, questo Dio al quale credono e che adorano. «Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (2 Cor 6, 16; Lv 26, 11-12). Poiché, «come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62, 5b). Ho fatto questa piccola digressione volontariamente, pensando a quelli che, senza curarsene, ignorano la verità della fede secondo la quale la Grazia visita colui che crede e si pente della colpa. La Grazia divina lo trasporta «dalla morte alla Vita[3]», rivelandogli tutti i suoi misteri, non soltanto in teoria, come ad uno spettatore che contempla una visione, ma anche nella sua concretezza, in modo organico, trasfigurandolo «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18).
Punto di partenza di questo splendore spirituale è il pentimento, e la principale forza è la preghiera. A questo proposito il grande asceta San Macario d’Egitto, nella sua omelia Sulla custodia del cuore si esprime così: «Il punto capitale dello sforzo verso il bene e il culmine degli atti virtuosi è la perseveranza nella preghiera, con la quale possiamo chiedere a Dio e ottenere ogni giorno le altre virtù»[4]. Egli dice allora: «Se non abbiamo interrotto l’opera della preghiera e della speranza, non peccheremo più[5]», e nel suo opuscolo Sulla Preghiera: «L’opera della preghiera e della parola fatta come conviene è al di sopra di tutta la virtù e dei comandamenti»[6].
Per natura, la preghiera racchiude una grandezza indicibile perché, legame e intermediaria fra Dio e le creature, contiene infinite possibilità. Mi manca il tempo per raccontare i cambiamenti e le variazioni della volontà e delle decisioni divine, la sospensione delle minacce di Dio, l’accelerazione delle promesse, il sollievo dei mali, la salute di tutti o di qualcuno, di cui fu causa, come appare in numerosi brani della Sacra Scrittura.
La preghiera è l’ancora di salvezza permanente dell’umanità che soffre. Se gli uomini non pregano, la fine della vita sulla terra avviene automaticamente in ragione della conflagrazione del male universale, e allora, in verità, non vi sarà «più indugio» (Ap 10, 6).
L’Anziano definiva la preghiera come se fosse la lingua del mondo futuro. Ma quella dell’epoca attuale è diversa? Quante lingue e dialetti differenti usa l’umanità? Alcuni di questi, però, non sono autentici, perché ignorano la verità per eccellenza. A cosa servono certi idiomi, se non per esprimere i desideri e le inclinazioni degli uomini? Quale desiderio, quale inclinazione è tanto positiva quanto quella di Dio e dell’eternità? Queste due cose sono ricapitolate nell’amore per Dio e per il prossimo; il mezzo, la voce per raggiungerli, è la preghiera.
L’insistenza sulla preghiera può sembrare eccessiva, tuttavia, conoscendone l’importanza come virtù perfetta, vi insisterò ancora, per il bene del singolo e per quello dell’umanità intera, desiderando di ottenere miglioramenti e riuscita. Durante l’esodo, al tempo di Mosè, vediamo lo smarrimento generale dei Giudei che in un certo modo obbliga la giustizia divina a distruggerli, ma sono inaspettatamente salvati dai castighi con la preghiera. Lo stesso Dio spinge Mosè a pregare, per perdonarli e salvarli: «Lasciami» (Dt 9, 14), e: «li distruggerò in un istante» (Nm 16, 2; 17, 10). I Padri interpretano «supplicami», come «lasciami». Poiché, quale altro significato può avere «lasciami»? Mosè lo sapeva? Bisogna allora capire che la preghiera di Mosè era capace d’impedire a Dio di trattare con rigore. Questo accadde molte volte durante il cammino errabondo dei Giudei nel deserto; ogni volta furono salvati dalla preghiera del Profeta, anche quando la «piaga» cominciò a danneggiare gli increduli (Nm 17, 12).
Numerosissimi esempi della storia dell’umanità provano che la preghiera dell’uomo virtuoso può salvare da catastrofi imminenti. Due sono i tratti distintivi che caratterizzano gli esseri dotati di ragione: la preghiera che testimonia la perfezione di quelli che sono stati resi perfetti in Dio, e la carità che costituisce l’essenza e la natura di questa perfezione.

L’Anziano soleva dire che la sensazione dell’amore del prossimo è rivelata a chi prega in modo autentico. Più precisamente: «Quando la Grazia agisce nell’anima dell’orante, l’amore di Dio abbonda al punto da non poter resistere a ciò che sente. Successivamente questo amore si volge verso il mondo e verso l’uomo che ama, al punto di cercare di prendere su di sé tutta la miseria e la sofferenza dell’umanità per sollevare gli uomini. In generale, egli aveva compassione di ogni afflizione, di ogni oppressione, ivi compresa quella degli animali irragionevoli, arrivando fino alle lacrime quando pensava che soffrivano! Queste sono le particolarità dell’amore che la preghiera suscita. Ecco perché quelli che progrediscono nella preghiera non cessano di pregare per il mondo. E’ da essi che dipende il perdurare della vita, per quanto paradossale e audace possa sembrare questa affermazione. Sappiate che se tali uomini dovessero sparire, sarebbe la fine del mondo.
Dio, che per natura è amore perfetto, comunica e trasmette una parte della sua bontà perfetta alle sue creature, in un modo ed in un grado che lui solo conosce. Di conseguenza, la medesima cosa può essere compiuta dai suoi servitori resi divini che, attraverso la preghiera e l’invocazione, comunicano la vita al mondo. Concludendo, se l’amore è come il corpo, la sua energia e la sua forza è la preghiera. Prova ne è che attraverso la preghiera si può giungere alla realizzazione dell’amore universale con molto successo, mentre altri mezzi e sforzi restano inefficaci.
Abba Barsanufio spiega nelle sue Lettere che alla sua epoca soltanto tre uomini potevano, con le loro preghiere, portare la pace ai popoli in guerra ed impedire che il mondo corresse verso la perdizione.[7] Sappiamo anche che dei santi, con le loro preghiere, allontanarono delle calamità incombenti: carestie ed epidemie di peste. Quale specie di concreto contributo o di servizio personale potrebbe essere così utile a popoli e paesi se non la preghiera? Allo stesso modo, l’usanza che le persone hanno di chiedere agli altri di pregare per loro non è prova dell’eccellenza della preghiera e del fatto che rappresenta la più grande e sicura garanzia di successo?
Questo dimostra anche il carattere universale della preghiera. Soltanto lei può includere in sé e unificare cose lontane, separate, riportandole nell’unità (Gv 11, 22). Non vi è che lei che possa riavvicinare ciò che è lontano e diviso, radunare parti avverse, in modo che ciascuno riconosca il suo prossimo come membro che fa parte di lui stesso, pur vivendo separatamente. In modo generale, la preghiera fatta per la sofferenza umana manifesta l’amore, come pure la preghiera che è fatta per l’edificazione e il pentimento degli erranti. Pregare per il nemico è il sommo della perfezione umana; allora «questo corpo si sarà vestito d’immortalità» (1 Cor 15, 54). Quelli che, una volta che sono divenuti deificati, pregano per i loro nemici, riflettono questa divina proprietà pronunciando una preghiera tale che se fosse possibile: «vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli» (Rm 9, 3), che mi hanno fatto un torto! Tale è anche l’ultima parola di Nostro Signore che prega per quelli che l’hanno crocifisso (Lc 23, 34)!

[tratto da: GIUSEPPE DI VATOPEDI, Giuseppe l’esicasta]



[1] Anziano, padre spirituale.
[2] Ciò che unisce spiritualmente l’insieme degli uomini.
[3] Giovanni Damasceno, Canone di Pasqua, ode I.
[4] Macario d’Egitto, Sulla custodia del cuore, 8, PG 34, 828.
[5] Ibidem. 5, PG 34, 824.
[6] Macario d’Egitto, Parafrasi di Simeone Metafrasto in centocinquanta capitoli ai cinquanta discorsi di Macario Egiziano, 32, in La filocalia, III, p 283.
[7] Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario, 569, ed. italiana a cura di F. T. Lovato e L. Mortari, Città Nuova, Roma 1991, pp. 459-460.

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