Cap. 1, 2-3
«Chi
si propone di correggere i difetti della fragilità umana deve sorreggere e, in
qualche modo, soppesare sulle sue spalle la debolezza stessa, non già
disfarsene. Il pastore, quello ben noto del vangelo, non ha abbandonato la
pecora stanca, ma se l’è messa in spalla. Salomone dice: non essere troppo giusto. La dolcezza ha il compito di lenire la
giustizia. Con quale animo, infatti, si potrebbe sottoporre alle tue cure chi
hai in antipatia ed è convinto che sarà non già oggetto di pietà, ben si di
disprezzo da parte del suo medico? Gesù ha avuto misericordia di noi non per
allontanarci, ma per chiamarci a sé. È venuto mite, umile. Il Signore guarisce
senza eccezioni, senza riserve. A ragione, ha scelto discepoli che, interpreti
del suo volere, raccogliessero e non tenessero lontano il popolo di Dio».
Cap. 6,29
«Quando
voi Novaziani depauperate la penitenza di ogni frutto, non dite altro che
questo: nessuno che sia stato ferito entri nella nostra locanda. Nessuno sia
sanato nel grembo della chiesa. Presso di noi non si prestano cure agli
ammalati. Siamo sani, per noi il medico è superfluo. Infatti Cristo in persona
ha detto: Non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati».
Cap. 13,61
«…il
bastone non vuol significare spietatezza. L’apostolo Paolo aveva letto nel
libro dei proverbi: “tu lo batterai con la verga, salverai però la sua anima
dalla morte”. Muoia, dunque, la nostra carne ai desideri, stia pure in catene,
in schiavitù, non muova guerra alla legge dello spirito. Muoia, soggiacendo a
salutare servitù, secondo l’esempio di Paolo. L’apostolo torturava il corpo per
renderlo schiavo, con l’intento di dare maggior credito alla parola, se la
legge della carne non sembrasse affatto essere in guerra con quella dello
spirito. La carne, infatti, muore quando la sua saggezza si trasferisce allo
spirito; non è più allora sapiente nelle cose materiali, ma nelle spirituali.
Oh, mi fosse concesso vedere la mia carne ammalarsi, così da non essere più trascinato
prigioniero dalla legge del peccato e non vivere nella carne, bensì nella fede
di Cristo! È pertanto, grazia più grande nella infermità che nella salute del
corpo. Il Signore amo intensamente Paolo, eppure non volle liberarlo dalla
malattia della carne. Allorché l’apostolo gli domandò di allontanare
l’infermità dal corpo, rispose: ti basti
la mia grazia; la potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza.
Paolo attesta di trovarsi maggiormente a suo agio nell’infermità: Quando sono debole è allora che sono forte.
La virtù dell’animo raggiunge la perfezione, quando la carne è ammalata».
Cap. 14, 68. 70-73. 75-77
«Il
serpente mangia questa terra, se Gesù è misericordioso verso di noi, così che
l’anima soffra per la debolezza della carne, ma non si bruci a causa del calore
del corpo e dell’ardore delle membra. “E’ meglio sposarsi che ardere”. C’è una
fiamma, infatti, che avvampa dentro di noi. Dunque, affinché non ci bruciamo le
vesti dell’io interiore e la vorace fiamma della dissolutezza non logori
l’abito esterno dell’anima, cioè, la sua tunica di pelle, non dobbiamo tenere
stretto il fuoco nel grembo della mente, nel segreto del cuore. Occorre varcare
la fiamma. Se qualcuno, perciò, incappa nel fuoco divampante dell’amore,
spicchi un salto e lo attraversi. Non trattenga l’impudico desiderio,
avvincendolo con i lacci dei cattivi pensieri. Non stringa a sé i legami con
nodi di una mente unicamente assorta nella bramosia. Non rivolga troppo spesso
gli occhi alla appariscente bellezza di una prostituta. La ragazza non sollevi
lo sguardo al volto del giovane. Se ha per caso guardato ed è rimasta colpita,
lo sarà ancora maggiormente, se curiosa fisserà gli occhi.
Ammettiamolo
pure: l’occhio si è casualmente posato. L’animo, però, non si soffermi con
desiderio. Non è colpa il vedere, ma dobbiamo guardarci che da esso scaturisca
il peccato. L’occhio corporale vede, il pudore dell’anima, tuttavia, tenga a
freno gli occhi del cuore. Abbiamo il Signore maestro di spiritualità e, a un
tempo, di dolcezza. Il profeta ha detto: non
guardare alla bellezza di una cortigiana. Il Signore, tuttavia, ha
affermato: chi guarderà una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Non ha detto:
chiunque guarderà ha commesso
adulterio, ma chiunque guarderà per
desiderarla. Non vuole imporre limiti di sosta alla vista, bensì fa
questione di sentimento. Santo è il pudore che ama tenere a freno gli occhi del
corpo, così che spesso non vediamo neppure ciò che ci è innanzi. Apparentemente
l’occhio vede ogni cosa che gli si para davanti, ma se non si aggiunge
l’intenzione, questo nostro vedere, di cui la carne ci da la possibilità,
riesce vano.
Dunque,
vediamo con la mente più che con il corpo. La carne abbia pure veduto il fuoco,
non teniamoci, però, la fiamma stretta in grembo, nel segreto, cioè, della
mente, nell’intimo dell’animo. Non facciamo penetrare il fuoco nelle ossa, non
incateniamoci da noi stessi, non parliamo con gente da cui emani ardente la
fiamma della colpa. L’eloquio della ragazza è nodo che avvince i giovani. Le
parole dell’adolescente sono lacci d’amore per la giovinetta.
Giuseppe fece
esperienza di un fuoco del genere, allorché la femmina desiderosa d’adulterio
gli parlò. La donna meditò di adescarlo con le sue parole. Ricorse alla malizie
tutte delle labbra, non riuscì, però, ad imprigionare l’uomo casto. La voce del
pudore, la serietà dell’eloquio, le briglie della prudenza, l’ossequi della
fede, l’esercizio della castità, sciolsero i lacci che la donna intendeva
stringere. La svergognata non poté accalappiarlo con le sue reti. Tese la mano
e lo afferro alle vesti per stringere il nodo. Le parole della donna sfacciata
sono le reti della cupidigia, la mano il vincolo della sua passione. Non reti,
non lacci ebbero ragione dell’uomo casto. Scosse via la veste, il nodo fu
sciolto. Non trattenne la fiamma nel grembo della mente e impedì, pertanto, che
la carne si bruciasse.
Non comprendi,
dunque, che il nostro animo è la fonte del peccato? La carne è innocente, ma
per lo più è lo strumento della colpa. Pertanto non ti lasciare soggiogare dal
desiderio che suscita la bellezza. Il diavolo tende reti infinite, tagliole di
ogni specie. L’occhio della cortigiana è il laccio che accalappia l’amante. I
nostri occhi stessi sono reti. Sta scritto nel libro dei proverbi: non lasciarti adescare dai tuoi occhi.
Noi medesimi tendiamo le reti che ci avvolgono e stringono. Siamo noi a
intrecciare nodi. Perciò si legge: ciascuno
è catturato con le funi dei suoi peccati.
Varchiamo
dunque anche noi questo fuoco dell’incontinenza. Paolo non ne ha avuto certo
paura: se lo ha temuto è stato solo per amore nostro. Infliggendo, infatti,
castighi al corpo, lo aveva messo in condizione di non nutrire paura per sé.
Dice: fuggite la fornicazione.
Fuggiamo, dunque, lontano dalla lussuria che ci incalza, ci insegue, e non già
alle nostre spalle, bensì in noi stessi. Guardiamoci dal trascinarcela con noi,
mentre cerchiamo di in ogni modo di sfuggirle. Siamo, sì, disposti spesso a
sottrarci a lei, ma se non la eliminiamo, ce la portiamo con noi invece di
disfarcene. Passiamole, dunque, attraverso con un salto, perché non si dica: camminate nelle fiamme del vostro fuoco che
avete acceso per voi (Is 50,11). Come chi porta il fuoco nel petto si
brucia le vesti, così chi cammina sul fuoco non può non bruciarsi i piedi.
Il fuoco è
esiziale. Non alimentiamolo con la dissolutezza. La lussuria si pasce di
imbandigioni, si nutre di piacevoli raffinatezze, si innaffia con le libagioni,
divampa allorché siamo ubriachi. Ma ancora più funesti sono gli allettamenti
delle parole che inebriano l’animo con il vino, per così dire, della vite di
Sodoma. Guardiamoci, tuttavia, anche dall’uso del vino che è a nostra
disposizione e per il cui effetto la carne diventa ebbra, la mente vacilla, l’anima
tentenna, il cuore ondeggia. Il precetto con cui Paolo esorta Timoteo: fa’ uso di un po’ di vino a causa delle tue
frequenti malattie, vuol significare che se il vino, da un lato, quando il
corpo è in balia delle passioni, ne accresce il peccaminoso ardore, dall’altro,
somministrato, invece, quando la carne è resa gelida dalla malattia, dà
sollievo allo spirito. Se il corpo è in preda del dolore, la mente è afflitta,
la tua tristezza, però, si muterà in gioia.
Non avere,
perciò, timore, se la tua carne è data in pasto: la tua anima non è divorata.
David dice di non aver paura, poiché, come leggiamo, i nemici mangiavano la sua
carne, non lo spirito: quando mi assalgo i nemici per straziarmi la
carne, sono essi, i nemici che mi tormentano, a inciampare e cadere. Il
serpente cagiona morte soltanto a se stesso. Chi egli stritola gli è affidato
gli è affidato perché lo faccia risorgere dopo averlo abbattuto e la
risurrezione dell’uomo diventi la sconfitta della belva. Nella Scrittura Paolo
ci addita Satana l’autore della distruzione e dell’infermità della carne e del
corpo: mi è stata messa una spina nella
carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada
in superbia. Paolo ha imparato a curare i malati con le medicine medesime
che hanno restituito a lui la vita».
Cap.15,81
«Riflettiamo
ora brevemente sul significato delle parole di Paolo: purificate il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siate
azzimi. La chiesa, da una parte, si addossa il peso del peccato verso il
quale deve dimostrare pietà con pianto, preghiera e afflizione. Deve, cioè,
aspergersi, per così dire, completamente del suo lievito, affinché i residui di
colpa nel pentimento siano purificati ad opera di tutti, in virtù, direi, di
un’azione collettiva di misericordia e di pietà scrive di debolezza. D’altra
parte, poi, la chiesa, come ce lo insegna la donna del vangelo, che di essa,
appunto, è simbolo, mescola il fermento alla farina, finché l’intera massa
lieviti in modo che possa essere consumata in tutta la sua purezza».
- Libro II -
Cap. 1, 2.5
«E’
necessario esercitare la penitenza con zelo, ma anche con tempestività. Ciò, ad
evitare che il padre di famiglia della parabola evangelica, il quale piantò
l’albero di fico nella sua vigna, non venga a ricercare su di esso il suo
frutto e, no trovandolo, dica al vignaiolo: taglialo,
perché deve sfruttare il terreno?. L’albero verrebbe abbattuto, se non
l’impedisse il vignaiolo che dice: o
padrone, lascialo ancora quest’anno, finché lo zappi attorno e vi metta il
concime; soltanto nel caso che il rimedio riesca inutile, il fico venga
allora reciso.
Confessiamo,
dunque, anche noi al Signore i nostri peccati senza rossore. Certamente, incute
timore il mettere a nudo le colpe, ma questa vergogna, appunto, ara il suo
podere, recide le spine eterne, toglie via i pruni, fa prosperare i frutti che
ritenevi morti per sempre. Segui le orme di chi arando convenientemente il suo
terreno si procacciò frutti eterni».
Cap. 5, 37-38
«Possiamo
constatare come si debba esercitare la penitenza, con quali parole, con quali
lacrime. Egli chiama addirittura giorni della confusione quelli del peccato.
Regna, infatti, confusione, quando Cristo è ripudiato.
Umiliamoci,
dunque, innanzi a Dio. Non rimaniamo nella sorgente della colpa. Vergogniamoci
al ricordo dei nostri peccati e non meniamone vanto quasi bravura alla maniera
di alcuni che si esaltano perché il pudore è stato da loro debellato e la
giustizia soffocata. La nostra conversione sia tale che proprio noi che non
conoscevamo Dio possiamo testimoniarlo agli altri, e il Signore commosso da
questo nostro mutamento di animo, risponda: dalla
mia giovinezza tu sei, o Efraim, il figlio mio caro, il figlio, per così dire,
prediletto. Me ne ricorderò sempre più vivamente, giacché le mie parole sono
impresse in lui. Perciò, ha detto il Signore, mi sono mostrato sempre sollecito
nei suoi riguardi e avrò misericordia di lui (Ger 38,19-20)».
Cap. 6, 40. 45-49
«…
Se desideri essere perdonato, confessa la tua colpa. Una confessione fatta con
cuore contrito scioglie i nodi dei peccati. Geremia non ignorò quale portentoso
farmaco fosse la penitenza. Nei lamenti fece ad essa ricorso in favore di
Gerusalemme. Con queste parole ci fa vedere la città che fa penitenza: amaramente ha pianto nella notte, le lacrime
scendono sulle guance;nessuno le reca conforto fra tutti i suoi amanti. Le
strade di Sion sono in lutto. Ha aggiunto: per tali cose io piango, gli occhi miei si sono offuscati per le
lacrime, perché che mi confortava è lontano da me.
Prestino
attenzione le persone che fanno penitenza, come debbano attendervi, con quale
ardore d’animo, con quale interiore sconvolgimento, con quale mutamento del
cuore: guarda, o Signore, quanto sono in
angoscia; le mie viscere sono agitate dal mio pianto, il mio cuore è sconvolto
dentro di me. Hai appreso quale debba essere l’ardore dell’animo, quale la
fede del cuore. Impara ora come tu debba regolarti nel comportamento esteriore.
Il profeta Geremia dice: gli anziani
della figlia di Sion siedono a terra in silenzio, hanno cosparso di cenere il
loro capo, si sono cinti di sacco, hanno fatto curvare a terra le vergini
elette di Gerusalemme. I miei occhi si sono consumati per le lacrime, si sono
offuscati, le mie viscere sono sconvolte, la mia gloria è stata sparsa a terra.
Anche il
popolo di Ninive così pianse e riuscì ad evitare il preannunciato sterminio dei
suoi abitanti. La penitenza è farmaco di tale efficacia che abbiamo
l’impressione che Dio medesimo muti consiglio. Dipende, perciò, da te soltanto
il sottrarti al castigo. Il Signore vuole essere pregato, esige fede, suppliche
in suo onore. Tu sei uomo e pretendi di essere pregato per elargire il perdono.
Pensi, dunque, che Dio sia disposto a concederti il perdono senza che tu lo
solleciti?
Il Signore in persona
pianse su Gerusalemme affinché, per non essendo essa disposta, ottenesse il
perdono in virtù delle lacrime di Dio. Egli vuole che piangiamo per evitare il
castigo. È scritto nel Vangelo: o figlie
di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse. Il
Signore stesso dice: beati voi che ora
piangete, perché riderete».
Cap. 7, 52.57
«versiamo,
dunque, lacrime finché c’è tempo, perché ci sia assicurata l’eterna felicità.
Temiamo il Signore, sollecitiamone la pietà con il confessare le nostre colpe.
Poniamo rimedio ai nostri errori, riparo ai falli, affinché non si dica anche
di noi: ohimè o anima, l’uomo pio è
scomparso dalla terra, non c’è tra gli uomini chi è disposto ad emendarsi.
Vedendo il grave peso che opprime
il peccatore, Gesù versa le lacrime. Non permette che la chiesa pianga da sola.
Ha pietà della prediletta e dice a chi è morto: vieni fuori, cioè tu che sei immerso nel buio della coscienza,
nella sozzura dei misfatti, vieni fuori come da una prigione di delinquenti,
metti a nudo la tua colpa per ottenere la giustificazione. Infatti, ci si confessa con la bocca in vista della
salvezza (Rom 10,10)».
Cap. 8, 66-67. 72-76. 78
«Fai
vedere, dunque, al medico la tua piaga, perché tu sia curato. Se non gliela
mostrerai, Egli la conosce, ma desidera ascoltare la tua voce. Netta le tue
cicatrici con le lacrime. In questa maniera, appunto, la donna del vangelo si è
mondata dal peccato, dal fetore della sua iniquità. Si è resa libera dalla
colpa, nel lavare i piedi di Gesù con le lacrime.
Volesse il
cielo, o Gesù, che tu mi destinassi a lavare i piedi che tu ti sei imbrattati
nell’incedere dentro di me! Oh, potessi tu concedermi di nettarli dal sudiciume
con cui li ho infangati con il mio cattivo operare! Ma donde attingere l’acqua
viva con cui lavarli? Non ho ha disposizione acqua, bensì le lacrime. Oh,
potessi con esse purificare me stesso, mentre lavo i tuoi piedi! Come fare,
perché tu dica a me: sono perdonati i
suoi molti peccati, perché ha molto amato? Ben di più avrei dovuto amare, lo
ammetto, e fin troppo mi è stato condonato. Sono stato, infatti, chiamato al
sacerdozio dopo essere vissuto sino a quel momento tra il frastuono… È mio
timore, pertanto, apparire ingrato, se dimostrerò un amore minore, giacche
molto di più mi è stato perdonato.
Volesse il
cielo che ti accostassi a questo mio sepolcro, o Gesù, e mi lavassi con il tuo
pianto! I miei occhi, infatti, si sono inariditi, le mie lacrime non bastano a
lavare le mie colpe. Se piangerai per me, sarò salvo! Se sarò degno che tu per
un poco versi lacrime per me, mi chiamerai fuori dalla tomba del corpo e dirai:
esci fuori. Pronunzierai queste
parole affinché i miei pensieri non siano in catene nel carcere della carne, ma
ne escano fuori verso Cristo, possano spaziare alla luce, così che io non
mediti le opere delle tenebre, ma quelle della luce. Chi ha in animo di
peccare, non altro desidera che farsi schiavo della sua coscienza.
Chiama,
dunque, fuori il tuo servo. Anche se avvinto dai legami del peccato, con i
piedi incatenati, con le mani strette da nodi, anche se per sempre sepolto ai
pensieri e alle opere morte, se mi chiami, uscirò fuori libero. Sarò uno tra
quelli che siedono alla mensa del tuo banchetto. Tutta la tua casa emanerà la
fragranza del prezioso profumo, se custodirai chi ti sei degnato riscattare
Preserva
Signore il tuo dono, custodisci il bene che mi ahi elargito nel sacerdozio,
anche se da esso rifuggissi. Ero consapevole, infatti, di non meritare di
essere chiamato vescovo, giacché mi ero votato al secolo. Ma per grazia tua
sono ciò che sono. Sono senza dubbio l’infimo tra tutti i vescovi, l’ultimo per
merito. Tuttavia, poiché mi sono sobbarcato a qualche travaglio per la tua
santa chiesa, custodisci questo frutto. Non permettere che chi già sull’orlo
della perdizione è stato chiamato al sacerdozio, ora, che è tuo ministro,
soccomba. Mi hai chiamato perché impari a condolermi di tutto cuore dei
travagli del peccatore. Virtù questa davvero grande. Sta appunto scritto: non gioire dei figli di giuda nel giorno
della loro sventura, non dire parole altezzose nel giorno della loro angoscia.
Mi hai chiamato, perché, ogni volta che si tratti della colpa di un lapso,
senta di lui pietà e non lo riprenda con durezza, bensì provi dolore e pianga.
Ciò, affinché, nel momento in cui verso lacrime su di un altro, pianga su me
stesso e possa dire: Tamar è più giusta di me.
Incolpiamo
qualcuno di cupidigia verso il denaro? Domandiamo prima se non abbiamo operato
anche noi la medesima bramosia. Allora ognuno di noi dica: Tamar è più giusta di me. Infatti l’attaccamento al denaro è la
radice dei mali: insensibilmente, come radice che si estende sotto terra, fa il
nostro corpo sua preda.
Ci siamo
adirati contro qualcuno: un laico e non un sacerdote, può essere perdonato per
aver agito sotto l’impulso dell’ira. Rimproveriamoci da noi stessi, diciamo:
chi è incolpato di essere iracondo è più giusto di me. Parlando così ci
metteremo nella condizione che Gesù o qualcuno dei discepoli dica di noi: tu osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo
fratello, mentre non ti accorgi della trave che è nel tuo? Ipocrita,togli prima
la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello
».
Cap. 9,83
«La
colpa, credo, può essere mitigata mediante elargizione ai poveri, perché la
fede aggiunga credito ai donativi. A che offrire le proprie sostanze se
l’ardore di carità non si accompagna all’oblazione?»
Cap. 10, 95-96
«alcuni
sono convinti che si possa fare più volte penitenza. Essi sono presi da
desideri indegni di cristo. Se attendessero, infatti, alla penitenza di tutto
cuore, non crederebbero alla necessità di doverla ripetere. Uno solo è il
battesimo, una sola è la penitenza, quella, s’intende, che si fa in pubblico.
Ogni giorno, infatti, dobbiamo pentirci del peccato, ma, mentre la penitenza
giornaliera è dei peccati più lievi, la pubblica è delle colpe di maggiore entità.
Mi sono
abbattuto molto spesso in persone che hanno conservato la loro innocenza che
non in gente che abbia atteso a pentirsi con coerenza. Credi forse che si possa
parlare di penitenza la dove si intriga in vario modo per ottenere carche,
regna il bere sfrenato, viene praticato l’accoppiamento carnale? Bisogna dire
con decisione addio al secolo, abbandonarsi al sonno meno di quanto la natura
esiga, alternarlo con lamenti, romperlo a mezzo con gemiti, riservarlo alla
preghiera. È necessario, insomma, vivere come se fossimo per sempre morti al
nostro modo di condurre l’esistenza terrena. L’uomo deve rinnegare se stesso,
trasformarsi completamente, come la tradizione racconta a proposito di un
giovane. Costui, dopo aver amato una cortigiana, partì alla volta di un paese
lontano. Cancellata che ebbe dall’animo la passione, ritornò e si imbatté nella
donna che aveva amata. Essa, meravigliata che il giovane non le rivolgesse
neppure la parola e pensando, quindi, di non essere stata riconosciuta,
incontratolo di nuovo, gli disse : sono
io, e l’altro: ma io non sono più io».
Cap. 11, 103.105-107
«Adamo
penso di nascondersi, non appena avvertì la presenza di Dio. Tentò di celarsi,
quantunque lo ricercasse, lo chiamasse con parole che dovevano trafiggere il
cuore di lui che si nascondeva: Adamo,
dove sei? Cioè, perché ti cieli, perché ti occulti, perché eviti il Signore
che desideravi vedere? La colpa rimorde la coscienza al punto tale che, anche
senza il giudice, si punisce da se stessa e desidera occultarsi, allontanarsi
da Dio.
Quando la
carne oppone resistenza, è necessario, allora, che lo spirito sia rivolto a
Dio. Se le opere vengono meno, la fede porti soccorso. Se le seduzioni della
carne o le potestà nemiche incalzano, lo spirito sia assorto in Dio. Quando,
infatti, la carne sferra il suo attacco, corriamo i pericoli più gravi. Eppure
alcuni, con tutte le loro forze, fanno violenza all’anima, tentando di privarla
di ogni sostegno. Perciò, è detto: distruggete,
distruggete, anche le sue fondamenta.
David,
appunto, mosso a pietà di lei esclama: figlia
infelice di Babilonia. Senz’altro è sventurata, giacché è oramai figlia di
Babilonia, non più di Dio. Invoca in suo favore l’intervento di chi possa
guarirla: beato chi afferra i tuoi
piccoli e li sbatterà contro la pietra. Beato, cioè, chi spezzerà contro
Cristo i pensieri caduchi, peccaminosi, e fiaccherà tutti gli impulsi non
conformi a ragione, in virtù di una cosciente autocritica: chi, ad esempio, in
balia di un amore adulterino possa tenere lontano lo struggente desiderio del
congiungimento carnale con una prostituta e rinunziare alla passione per
guadagnarsi Cristo.
Dunque,
abbiamo appreso innanzitutto che occorre fare penitenza, e ciò quando la
bramosia di peccare si è spenta; ancora, che nella schiavitù del peccato
dobbiamo essere rispettosi, non già arroganti. A Mosè che desiderava sempre più
addentrarsi nella conoscenza del mistero celeste, è detto: togliti i sandali dai piedi. A maggior ragione è necessario,
quindi, che noi liberiamo i piedi della nostra anima dai legami del corpo e
sciogliamo i passi dai nodi che ci avvincono a questo mondo».
[sant'Ambrogio di Milano]
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