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LA SANTA PENITENZA


Cap. 1, 2-3
            «Chi si propone di correggere i difetti della fragilità umana deve sorreggere e, in qualche modo, soppesare sulle sue spalle la debolezza stessa, non già disfarsene. Il pastore, quello ben noto del vangelo, non ha abbandonato la pecora stanca, ma se l’è messa in spalla. Salomone dice: non essere troppo giusto. La dolcezza ha il compito di lenire la giustizia. Con quale animo, infatti, si potrebbe sottoporre alle tue cure chi hai in antipatia ed è convinto che sarà non già oggetto di pietà, ben si di disprezzo da parte del suo medico? Gesù ha avuto misericordia di noi non per allontanarci, ma per chiamarci a sé. È venuto mite, umile. Il Signore guarisce senza eccezioni, senza riserve. A ragione, ha scelto discepoli che, interpreti del suo volere, raccogliessero e non tenessero lontano il popolo di Dio».

Cap. 6,29
            «Quando voi Novaziani depauperate la penitenza di ogni frutto, non dite altro che questo: nessuno che sia stato ferito entri nella nostra locanda. Nessuno sia sanato nel grembo della chiesa. Presso di noi non si prestano cure agli ammalati. Siamo sani, per noi il medico è superfluo. Infatti Cristo in persona ha detto: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati».

Cap. 13,61
            «…il bastone non vuol significare spietatezza. L’apostolo Paolo aveva letto nel libro dei proverbi: “tu lo batterai con la verga, salverai però la sua anima dalla morte”. Muoia, dunque, la nostra carne ai desideri, stia pure in catene, in schiavitù, non muova guerra alla legge dello spirito. Muoia, soggiacendo a salutare servitù, secondo l’esempio di Paolo. L’apostolo torturava il corpo per renderlo schiavo, con l’intento di dare maggior credito alla parola, se la legge della carne non sembrasse affatto essere in guerra con quella dello spirito. La carne, infatti, muore quando la sua saggezza si trasferisce allo spirito; non è più allora sapiente nelle cose materiali, ma nelle spirituali. Oh, mi fosse concesso vedere la mia carne ammalarsi, così da non essere più trascinato prigioniero dalla legge del peccato e non vivere nella carne, bensì nella fede di Cristo! È pertanto, grazia più grande nella infermità che nella salute del corpo. Il Signore amo intensamente Paolo, eppure non volle liberarlo dalla malattia della carne. Allorché l’apostolo gli domandò di allontanare l’infermità dal corpo, rispose: ti basti la mia grazia; la potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza. Paolo attesta di trovarsi maggiormente a suo agio nell’infermità: Quando sono debole è allora che sono forte. La virtù dell’animo raggiunge la perfezione, quando la carne è ammalata».

Cap. 14, 68. 70-73. 75-77
            «Il serpente mangia questa terra, se Gesù è misericordioso verso di noi, così che l’anima soffra per la debolezza della carne, ma non si bruci a causa del calore del corpo e dell’ardore delle membra. “E’ meglio sposarsi che ardere”. C’è una fiamma, infatti, che avvampa dentro di noi. Dunque, affinché non ci bruciamo le vesti dell’io interiore e la vorace fiamma della dissolutezza non logori l’abito esterno dell’anima, cioè, la sua tunica di pelle, non dobbiamo tenere stretto il fuoco nel grembo della mente, nel segreto del cuore. Occorre varcare la fiamma. Se qualcuno, perciò, incappa nel fuoco divampante dell’amore, spicchi un salto e lo attraversi. Non trattenga l’impudico desiderio, avvincendolo con i lacci dei cattivi pensieri. Non stringa a sé i legami con nodi di una mente unicamente assorta nella bramosia. Non rivolga troppo spesso gli occhi alla appariscente bellezza di una prostituta. La ragazza non sollevi lo sguardo al volto del giovane. Se ha per caso guardato ed è rimasta colpita, lo sarà ancora maggiormente, se curiosa fisserà gli occhi.
Ammettiamolo pure: l’occhio si è casualmente posato. L’animo, però, non si soffermi con desiderio. Non è colpa il vedere, ma dobbiamo guardarci che da esso scaturisca il peccato. L’occhio corporale vede, il pudore dell’anima, tuttavia, tenga a freno gli occhi del cuore. Abbiamo il Signore maestro di spiritualità e, a un tempo, di dolcezza. Il profeta ha detto: non guardare alla bellezza di una cortigiana. Il Signore, tuttavia, ha affermato: chi guarderà una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Non ha detto: chiunque guarderà ha commesso adulterio, ma chiunque guarderà per desiderarla. Non vuole imporre limiti di sosta alla vista, bensì fa questione di sentimento. Santo è il pudore che ama tenere a freno gli occhi del corpo, così che spesso non vediamo neppure ciò che ci è innanzi. Apparentemente l’occhio vede ogni cosa che gli si para davanti, ma se non si aggiunge l’intenzione, questo nostro vedere, di cui la carne ci da la possibilità, riesce vano.
Dunque, vediamo con la mente più che con il corpo. La carne abbia pure veduto il fuoco, non teniamoci, però, la fiamma stretta in grembo, nel segreto, cioè, della mente, nell’intimo dell’animo. Non facciamo penetrare il fuoco nelle ossa, non incateniamoci da noi stessi, non parliamo con gente da cui emani ardente la fiamma della colpa. L’eloquio della ragazza è nodo che avvince i giovani. Le parole dell’adolescente sono lacci d’amore per la giovinetta.
Giuseppe fece esperienza di un fuoco del genere, allorché la femmina desiderosa d’adulterio gli parlò. La donna meditò di adescarlo con le sue parole. Ricorse alla malizie tutte delle labbra, non riuscì, però, ad imprigionare l’uomo casto. La voce del pudore, la serietà dell’eloquio, le briglie della prudenza, l’ossequi della fede, l’esercizio della castità, sciolsero i lacci che la donna intendeva stringere. La svergognata non poté accalappiarlo con le sue reti. Tese la mano e lo afferro alle vesti per stringere il nodo. Le parole della donna sfacciata sono le reti della cupidigia, la mano il vincolo della sua passione. Non reti, non lacci ebbero ragione dell’uomo casto. Scosse via la veste, il nodo fu sciolto. Non trattenne la fiamma nel grembo della mente e impedì, pertanto, che la carne si bruciasse.
Non comprendi, dunque, che il nostro animo è la fonte del peccato? La carne è innocente, ma per lo più è lo strumento della colpa. Pertanto non ti lasciare soggiogare dal desiderio che suscita la bellezza. Il diavolo tende reti infinite, tagliole di ogni specie. L’occhio della cortigiana è il laccio che accalappia l’amante. I nostri occhi stessi sono reti. Sta scritto nel libro dei proverbi: non lasciarti adescare dai tuoi occhi. Noi medesimi tendiamo le reti che ci avvolgono e stringono. Siamo noi a intrecciare nodi. Perciò si legge: ciascuno è catturato con le funi dei suoi peccati.
Varchiamo dunque anche noi questo fuoco dell’incontinenza. Paolo non ne ha avuto certo paura: se lo ha temuto è stato solo per amore nostro. Infliggendo, infatti, castighi al corpo, lo aveva messo in condizione di non nutrire paura per sé. Dice: fuggite la fornicazione. Fuggiamo, dunque, lontano dalla lussuria che ci incalza, ci insegue, e non già alle nostre spalle, bensì in noi stessi. Guardiamoci dal trascinarcela con noi, mentre cerchiamo di in ogni modo di sfuggirle. Siamo, sì, disposti spesso a sottrarci a lei, ma se non la eliminiamo, ce la portiamo con noi invece di disfarcene. Passiamole, dunque, attraverso con un salto, perché non si dica: camminate nelle fiamme del vostro fuoco che avete acceso per voi (Is 50,11). Come chi porta il fuoco nel petto si brucia le vesti, così chi cammina sul fuoco non può non bruciarsi i piedi.
Il fuoco è esiziale. Non alimentiamolo con la dissolutezza. La lussuria si pasce di imbandigioni, si nutre di piacevoli raffinatezze, si innaffia con le libagioni, divampa allorché siamo ubriachi. Ma ancora più funesti sono gli allettamenti delle parole che inebriano l’animo con il vino, per così dire, della vite di Sodoma. Guardiamoci, tuttavia, anche dall’uso del vino che è a nostra disposizione e per il cui effetto la carne diventa ebbra, la mente vacilla, l’anima tentenna, il cuore ondeggia. Il precetto con cui Paolo esorta Timoteo: fa’ uso di un po’ di vino a causa delle tue frequenti malattie, vuol significare che se il vino, da un lato, quando il corpo è in balia delle passioni, ne accresce il peccaminoso ardore, dall’altro, somministrato, invece, quando la carne è resa gelida dalla malattia, dà sollievo allo spirito. Se il corpo è in preda del dolore, la mente è afflitta, la tua tristezza, però, si muterà in gioia.
Non avere, perciò, timore, se la tua carne è data in pasto: la tua anima non è divorata. David dice di non aver paura, poiché, come leggiamo, i nemici mangiavano la sua carne, non lo spirito:  quando mi assalgo i nemici per straziarmi la carne, sono essi, i nemici che mi tormentano, a inciampare e cadere. Il serpente cagiona morte soltanto a se stesso. Chi egli stritola gli è affidato gli è affidato perché lo faccia risorgere dopo averlo abbattuto e la risurrezione dell’uomo diventi la sconfitta della belva. Nella Scrittura Paolo ci addita Satana l’autore della distruzione e dell’infermità della carne e del corpo: mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. Paolo ha imparato a curare i malati con le medicine medesime che hanno restituito a lui la vita».

Cap.15,81
            «Riflettiamo ora brevemente sul significato delle parole di Paolo: purificate il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siate azzimi. La chiesa, da una parte, si addossa il peso del peccato verso il quale deve dimostrare pietà con pianto, preghiera e afflizione. Deve, cioè, aspergersi, per così dire, completamente del suo lievito, affinché i residui di colpa nel pentimento siano purificati ad opera di tutti, in virtù, direi, di un’azione collettiva di misericordia e di pietà scrive di debolezza. D’altra parte, poi, la chiesa, come ce lo insegna la donna del vangelo, che di essa, appunto, è simbolo, mescola il fermento alla farina, finché l’intera massa lieviti in modo che possa essere consumata in tutta la sua purezza».

- Libro II -

Cap. 1, 2.5
            «E’ necessario esercitare la penitenza con zelo, ma anche con tempestività. Ciò, ad evitare che il padre di famiglia della parabola evangelica, il quale piantò l’albero di fico nella sua vigna, non venga a ricercare su di esso il suo frutto e, no trovandolo, dica al vignaiolo: taglialo, perché deve sfruttare il terreno?. L’albero verrebbe abbattuto, se non l’impedisse il vignaiolo che dice: o padrone, lascialo ancora quest’anno, finché lo zappi attorno e vi metta il concime; soltanto nel caso che il rimedio riesca inutile, il fico venga allora reciso.
Confessiamo, dunque, anche noi al Signore i nostri peccati senza rossore. Certamente, incute timore il mettere a nudo le colpe, ma questa vergogna, appunto, ara il suo podere, recide le spine eterne, toglie via i pruni, fa prosperare i frutti che ritenevi morti per sempre. Segui le orme di chi arando convenientemente il suo terreno si procacciò frutti eterni».

Cap. 5, 37-38
            «Possiamo constatare come si debba esercitare la penitenza, con quali parole, con quali lacrime. Egli chiama addirittura giorni della confusione quelli del peccato. Regna, infatti, confusione, quando Cristo è ripudiato.
Umiliamoci, dunque, innanzi a Dio. Non rimaniamo nella sorgente della colpa. Vergogniamoci al ricordo dei nostri peccati e non meniamone vanto quasi bravura alla maniera di alcuni che si esaltano perché il pudore è stato da loro debellato e la giustizia soffocata. La nostra conversione sia tale che proprio noi che non conoscevamo Dio possiamo testimoniarlo agli altri, e il Signore commosso da questo nostro mutamento di animo, risponda: dalla mia giovinezza tu sei, o Efraim, il figlio mio caro, il figlio, per così dire, prediletto. Me ne ricorderò sempre più vivamente, giacché le mie parole sono impresse in lui. Perciò, ha detto il Signore, mi sono mostrato sempre sollecito nei suoi riguardi e avrò misericordia di lui (Ger 38,19-20)».

Cap. 6, 40. 45-49
            «… Se desideri essere perdonato, confessa la tua colpa. Una confessione fatta con cuore contrito scioglie i nodi dei peccati. Geremia non ignorò quale portentoso farmaco fosse la penitenza. Nei lamenti fece ad essa ricorso in favore di Gerusalemme. Con queste parole ci fa vedere la città che fa penitenza:  amaramente ha pianto nella notte, le lacrime scendono sulle guance;nessuno le reca conforto fra tutti i suoi amanti. Le strade di Sion sono in lutto. Ha aggiunto: per tali cose io piango, gli occhi miei si sono offuscati per le lacrime, perché che mi confortava è lontano da me.
Prestino attenzione le persone che fanno penitenza, come debbano attendervi, con quale ardore d’animo, con quale interiore sconvolgimento, con quale mutamento del cuore: guarda, o Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere sono agitate dal mio pianto, il mio cuore è sconvolto dentro di me. Hai appreso quale debba essere l’ardore dell’animo, quale la fede del cuore. Impara ora come tu debba regolarti nel comportamento esteriore. Il profeta Geremia dice: gli anziani della figlia di Sion siedono a terra in silenzio, hanno cosparso di cenere il loro capo, si sono cinti di sacco, hanno fatto curvare a terra le vergini elette di Gerusalemme. I miei occhi si sono consumati per le lacrime, si sono offuscati, le mie viscere sono sconvolte, la mia gloria è stata sparsa a terra.
Anche il popolo di Ninive così pianse e riuscì ad evitare il preannunciato sterminio dei suoi abitanti. La penitenza è farmaco di tale efficacia che abbiamo l’impressione che Dio medesimo muti consiglio. Dipende, perciò, da te soltanto il sottrarti al castigo. Il Signore vuole essere pregato, esige fede, suppliche in suo onore. Tu sei uomo e pretendi di essere pregato per elargire il perdono. Pensi, dunque, che Dio sia disposto a concederti il perdono senza che tu lo solleciti?
Il Signore in persona pianse su Gerusalemme affinché, per non essendo essa disposta, ottenesse il perdono in virtù delle lacrime di Dio. Egli vuole che piangiamo per evitare il castigo. È scritto nel Vangelo: o figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse. Il Signore stesso dice: beati voi che ora piangete, perché riderete».

Cap. 7, 52.57
            «versiamo, dunque, lacrime finché c’è tempo, perché ci sia assicurata l’eterna felicità. Temiamo il Signore, sollecitiamone la pietà con il confessare le nostre colpe. Poniamo rimedio ai nostri errori, riparo ai falli, affinché non si dica anche di noi: ohimè o anima, l’uomo pio è scomparso dalla terra, non c’è tra gli uomini chi è disposto ad emendarsi.
Vedendo il grave peso che opprime il peccatore, Gesù versa le lacrime. Non permette che la chiesa pianga da sola. Ha pietà della prediletta e dice a chi è morto: vieni fuori, cioè tu che sei immerso nel buio della coscienza, nella sozzura dei misfatti, vieni fuori come da una prigione di delinquenti, metti a nudo la tua colpa per ottenere la giustificazione. Infatti, ci si confessa con la bocca in vista della salvezza (Rom 10,10)».

Cap. 8, 66-67. 72-76. 78
            «Fai vedere, dunque, al medico la tua piaga, perché tu sia curato. Se non gliela mostrerai, Egli la conosce, ma desidera ascoltare la tua voce. Netta le tue cicatrici con le lacrime. In questa maniera, appunto, la donna del vangelo si è mondata dal peccato, dal fetore della sua iniquità. Si è resa libera dalla colpa, nel lavare i piedi di Gesù con le lacrime.
Volesse il cielo, o Gesù, che tu mi destinassi a lavare i piedi che tu ti sei imbrattati nell’incedere dentro di me! Oh, potessi tu concedermi di nettarli dal sudiciume con cui li ho infangati con il mio cattivo operare! Ma donde attingere l’acqua viva con cui lavarli? Non ho ha disposizione acqua, bensì le lacrime. Oh, potessi con esse purificare me stesso, mentre lavo i tuoi piedi! Come fare, perché tu dica a me: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato? Ben di più avrei dovuto amare, lo ammetto, e fin troppo mi è stato condonato. Sono stato, infatti, chiamato al sacerdozio dopo essere vissuto sino a quel momento tra il frastuono… È mio timore, pertanto, apparire ingrato, se dimostrerò un amore minore, giacche molto di più mi è stato perdonato.
Volesse il cielo che ti accostassi a questo mio sepolcro, o Gesù, e mi lavassi con il tuo pianto! I miei occhi, infatti, si sono inariditi, le mie lacrime non bastano a lavare le mie colpe. Se piangerai per me, sarò salvo! Se sarò degno che tu per un poco versi lacrime per me, mi chiamerai fuori dalla tomba del corpo e dirai: esci fuori. Pronunzierai queste parole affinché i miei pensieri non siano in catene nel carcere della carne, ma ne escano fuori verso Cristo, possano spaziare alla luce, così che io non mediti le opere delle tenebre, ma quelle della luce. Chi ha in animo di peccare, non altro desidera che farsi schiavo della sua coscienza.
Chiama, dunque, fuori il tuo servo. Anche se avvinto dai legami del peccato, con i piedi incatenati, con le mani strette da nodi, anche se per sempre sepolto ai pensieri e alle opere morte, se mi chiami, uscirò fuori libero. Sarò uno tra quelli che siedono alla mensa del tuo banchetto. Tutta la tua casa emanerà la fragranza del prezioso profumo, se custodirai chi ti sei degnato riscattare
Preserva Signore il tuo dono, custodisci il bene che mi ahi elargito nel sacerdozio, anche se da esso rifuggissi. Ero consapevole, infatti, di non meritare di essere chiamato vescovo, giacché mi ero votato al secolo. Ma per grazia tua sono ciò che sono. Sono senza dubbio l’infimo tra tutti i vescovi, l’ultimo per merito. Tuttavia, poiché mi sono sobbarcato a qualche travaglio per la tua santa chiesa, custodisci questo frutto. Non permettere che chi già sull’orlo della perdizione è stato chiamato al sacerdozio, ora, che è tuo ministro, soccomba. Mi hai chiamato perché impari a condolermi di tutto cuore dei travagli del peccatore. Virtù questa davvero grande. Sta appunto scritto: non gioire dei figli di giuda nel giorno della loro sventura, non dire parole altezzose nel giorno della loro angoscia. Mi hai chiamato, perché, ogni volta che si tratti della colpa di un lapso, senta di lui pietà e non lo riprenda con durezza, bensì provi dolore e pianga. Ciò, affinché, nel momento in cui verso lacrime su di un altro, pianga su me stesso e possa dire:  Tamar è più giusta di me.
Incolpiamo qualcuno di cupidigia verso il denaro? Domandiamo prima se non abbiamo operato anche noi la medesima bramosia. Allora ognuno di noi dica: Tamar è più giusta di me. Infatti l’attaccamento al denaro è la radice dei mali: insensibilmente, come radice che si estende sotto terra, fa il nostro corpo sua preda.
Ci siamo adirati contro qualcuno: un laico e non un sacerdote, può essere perdonato per aver agito sotto l’impulso dell’ira. Rimproveriamoci da noi stessi, diciamo: chi è incolpato di essere iracondo è più giusto di me. Parlando così ci metteremo nella condizione che Gesù o qualcuno dei discepoli dica di noi: tu osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che è nel tuo? Ipocrita,togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratelloiù mi è stato pedonatotenere la giustif».

Cap. 9,83
            «La colpa, credo, può essere mitigata mediante elargizione ai poveri, perché la fede aggiunga credito ai donativi. A che offrire le proprie sostanze se l’ardore di carità non si accompagna all’oblazione?»

Cap. 10, 95-96
            «alcuni sono convinti che si possa fare più volte penitenza. Essi sono presi da desideri indegni di cristo. Se attendessero, infatti, alla penitenza di tutto cuore, non crederebbero alla necessità di doverla ripetere. Uno solo è il battesimo, una sola è la penitenza, quella, s’intende, che si fa in pubblico. Ogni giorno, infatti, dobbiamo pentirci del peccato, ma, mentre la penitenza giornaliera è dei peccati più lievi, la pubblica è delle colpe  di maggiore entità.
Mi sono abbattuto molto spesso in persone che hanno conservato la loro innocenza che non in gente che abbia atteso a pentirsi con coerenza. Credi forse che si possa parlare di penitenza la dove si intriga in vario modo per ottenere carche, regna il bere sfrenato, viene praticato l’accoppiamento carnale? Bisogna dire con decisione addio al secolo, abbandonarsi al sonno meno di quanto la natura esiga, alternarlo con lamenti, romperlo a mezzo con gemiti, riservarlo alla preghiera. È necessario, insomma, vivere come se fossimo per sempre morti al nostro modo di condurre l’esistenza terrena. L’uomo deve rinnegare se stesso, trasformarsi completamente, come la tradizione racconta a proposito di un giovane. Costui, dopo aver amato una cortigiana, partì alla volta di un paese lontano. Cancellata che ebbe dall’animo la passione, ritornò e si imbatté nella donna che aveva amata. Essa, meravigliata che il giovane non le rivolgesse neppure la parola e pensando, quindi, di non essere stata riconosciuta, incontratolo di nuovo, gli disse : sono io, e l’altro: ma io non sono più io».

Cap. 11, 103.105-107
            «Adamo penso di nascondersi, non appena avvertì la presenza di Dio. Tentò di celarsi, quantunque lo ricercasse, lo chiamasse con parole che dovevano trafiggere il cuore di lui che si nascondeva: Adamo, dove sei? Cioè, perché ti cieli, perché ti occulti, perché eviti il Signore che desideravi vedere? La colpa rimorde la coscienza al punto tale che, anche senza il giudice, si punisce da se stessa e desidera occultarsi, allontanarsi da Dio.
Quando la carne oppone resistenza, è necessario, allora, che lo spirito sia rivolto a Dio. Se le opere vengono meno, la fede porti soccorso. Se le seduzioni della carne o le potestà nemiche incalzano, lo spirito sia assorto in Dio. Quando, infatti, la carne sferra il suo attacco, corriamo i pericoli più gravi. Eppure alcuni, con tutte le loro forze, fanno violenza all’anima, tentando di privarla di ogni sostegno. Perciò, è detto: distruggete, distruggete, anche le sue fondamenta.
David, appunto, mosso a pietà di lei esclama: figlia infelice di Babilonia. Senz’altro è sventurata, giacché è oramai figlia di Babilonia, non più di Dio. Invoca in suo favore l’intervento di chi possa guarirla: beato chi afferra i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra. Beato, cioè, chi spezzerà contro Cristo i pensieri caduchi, peccaminosi, e fiaccherà tutti gli impulsi non conformi a ragione, in virtù di una cosciente autocritica: chi, ad esempio, in balia di un amore adulterino possa tenere lontano lo struggente desiderio del congiungimento carnale con una prostituta e rinunziare alla passione per guadagnarsi Cristo.
Dunque, abbiamo appreso innanzitutto che occorre fare penitenza, e ciò quando la bramosia di peccare si è spenta; ancora, che nella schiavitù del peccato dobbiamo essere rispettosi, non già arroganti. A Mosè che desiderava sempre più addentrarsi nella conoscenza del mistero celeste, è detto: togliti i sandali dai piedi. A maggior ragione è necessario, quindi, che noi liberiamo i piedi della nostra anima dai legami del corpo e sciogliamo i passi dai nodi che ci avvincono a questo mondo».
[sant'Ambrogio di Milano]

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IN NOME DEL PAPA RE È proprio vero che non si finisce mai d’imparare! Il mese scorso sono salita all’eremo con mio marito, come faccio regolarmente oramai da anni. Abbiamo lasciato l’auto all’inizio dello sterrato e abbiamo proseguito a piedi sulla neve ghiacciata. La giornata era spettacolare, ma io avevo nel cuore delle ombre fosche. Ero arrabbiata! Covavo il malumore oramai da settimane e non riuscivo a darmi pace per alcune vicende ecclesiali, legate sia alla mia parrocchia, nella quale servo come catechista da più di 20 anni, che alla chiesa universale. Mi lamentavo: “è tutto marcio, un covo di immorali senza nessun timore di Dio. Per colpa di questi va tutto allo sfascio”. Dopo averci ascoltato, nel suo solito silenzio imbevuto dal lento scorrere del comboschini, il padre ci ha guardato dritto negli occhi e ha detto, con il suo tono inconfondibile: “non finisce tutto perché i garibaldini sono alle porte, ma i garibaldini sono alle porte perché qui è già tutto finit

VITA DI SAN PAISIJ VELICKOVSKIJ

L’eremita p. Michele Di Monte traducendo la biografia di Paisij Veličovskij, attinge alla sapienza monastica della tradizione russa per parlare alla Chiesa e ai cristiani del nostro tempo L’introduzione imposta un criterio chiaro di discernimento tra tradizionalismo - da rifiutare - e senso della tradizione, coscienza di essere sempre figli ed eredi nel campo della fede cristiana e della vita della Chiesa. Alla smoderata passione di novità che porta la teologia a derive pericolose, egli contrappone l’umile riflessione sul dato oggettivo della fede e il servizio alla comprensione autentica attraverso una vita coerente al vangelo, vivendo la comunione ecclesiale, non solo in senso orizzontale, ma anche verticale, nel senso di una sentita appartenenza a coloro che fin dall’inizio hanno seguito il Signore. In questo senso il Commonitorium di Vincenzo di Lerins ha ancora molto da insegnarci. Nelle vicende biografiche di Paisij, nato a Poltava nel 1722, qu