Con l’aiuto del Signore che lo accompagnava,
fin dagli inizi del noviziato si impegnò molto e con successo, dedicandosi
particolarmente ai lavori pesanti. Quando qualcuno si impegna molto in un
lavoro fisico, i demoni solitamente si ingelosiscono di lui: infatti non
riescono a sopportare la vista di esseri corporei che portano a compimento
opere spirituali. Allora si ingegnano in ogni modo a far inciampare quel
fratello nella vanagloria che distrugge ogni merito e nell’orgoglio che si
oppone a Dio. Per questo e a causa di questo, il fratello necessita di una
grande dose di umiltà per umiliare se stesso in tutto e disprezzare se stesso
prima di tutto affinché, nel Signore Gesù, possa sfuggire ai nemici e agli
avversari che gli si oppongono. Questo eletto conosceva bene tutto ciò, quindi
si impegnò con ogni cura a disdegnare se stesso.
Rabban Giuseppe
raccontava di lui che un giorno in cui i fratelli stavano insieme nel tempio a
celebrare i Santi Misteri, il beato giunse in chiesa in modo stranissimo: aveva
il volto annerito, portava un collare fatto di ossa, la cintura cingeva la
tunica sopra le ginocchia, cavalcava un bastone tenendo una bacchetta in mano e
correva, come se stesse trottando. Entrò in chiesa in questo modo. Avanzò fino
ai cancelli [del santuario], uscì di chiesa, se ne andò al convento, e tornò
nuovamente in chiesa. Il discepolo gli corse appresso e lo riprese in segreto
dicendo: «Hai visto, per un interesse personale, danneggi i fratelli». Allora
abbassò il capo, guardò a terra e tornò alla sua cella. I fratelli erano
stupiti e affranti per il fatto che un uomo tanto virtuoso fosse posseduto dal
demonio. Il discepolo lo raggiunse e gli lavò il viso. Passò molto tempo e
quello stesso discepolo si stese ai suoi piedi e con la carità e la libertà che
usava con lui, gli domandò perché avesse manifestato un’umiltà così grande e un
disprezzo di sé così sorprendente. Cedendo alla richiesta dell’amico, Rabban
gli disse: «Vedi, figlio mio, da una settimana ero impegnato in una dura lotta,
difficile da spiegare, con i demoni che mi assalivano tendendomi trappole per
indurmi alla vanagloria da cui origina l’orgoglio che fa perire l’uomo. Ho
fatto sforzi incredibili per respingere le aggressioni, ma in questi ultimi
giorni quei maledetti astuti si sono armati e coalizzati contro di me e mi
hanno assalito con audacia e scaltrezza sempre più forte. I fatti si facevano
più gravi, allora ho fatto ricorso all’umiliazione e al disprezzo di me stesso,
perché Cristo li scacciasse dalla mia presenza e mi concedesse la liberazione
dalle loro aggressioni in virtù della sua grazia misericordiosa».
Rabban Giuseppe
raccontava ancora che un giorno alcuni fratelli che passavano vicino alla porta
della sua cella, udirono che stava parlando con una donna, almeno così
sembrava, dicendo: «Guai a te, scellerata! Fino a quando io ti sarò sottomesso
e tu sarai la mia amante? Non ti basta esserlo stato fino ad ora? Abbi timore
di Dio e lasciami libero da questo giogo infruttuoso». Aggiunse molte altre
cose simili. I fratelli andarono in fretta a chiamare il superiore del convento
e gli anziani, raccontandogli che nella cella, con l’anziano, c’era una donna.
Il superiore e gli
anziani si stupirono e si afflissero profondamente nel sapere che un fatto così
deplorevole fosse capitato ad un uomo tanto virtuoso, proprio a lui che era un
riferimento per tutta la regione. Si misero in cammino e si recarono alla cella
del vecchio. Bussarono alla porta, il fratello aprì e li fece entrare.
Pregarono secondo la regola, ma per rispetto alla sua onorevole età, non
osarono dirgli niente. Fu lui stesso a rivolger loro la parola: «Ditemi pure
perché siete venuti tutti insieme». Allora volsero lo sguardo verso terra.
Capirono di essersi sbagliati e gli chiesero scusa. L’anziano disse al
superiore del monastero: «La tua regola e il tuo ruolo non richiedono che tu
sveli così apertamente le colpe dei farabutti, ma piuttosto che li richiami
alla regola e li nascondi, li riprendi e li rimproveri per il loro bene e non
per il loro smarrimento. Supponiamo che un uomo si metta in una situazione di
peccato – Dio non voglia! –, non devi esporlo e divulgare la sua colpa, per
timore che questo gesto vada a suo danno e a danno degli altri per causa sua.
Invece lo devi correggere e riprendere nel segreto, con carità. Ora mettiamo
tutto da parte e andiamo in refettorio dove capirai il motivo per cui i
fratelli che sono venuti da voi, si sono scandalizzati».
Quando il superiore
del convento e i fratelli entrarono in refettorio, trovarono sul fuoco una
pentola. Il beato disse loro: «Cari padri e fratelli, sono cinquanta giorni che
questa dimora nociva che è la mia pancia, chiede e reclama una minestra per
sentirsi soddisfatta; oggi mi ha particolarmente tormentato e le ho preparato
questa zuppa per soddisfare il suo desiderio. Le parlavo e la rimproveravo con
le parole che i fratelli hanno udito, nella speranza di essere liberato da
quella servitù imposta dalla stessa natura in questa casa vuota. Ora che Cristo
ci ha riuniti, secondo la sua volontà, eserciteremo la carità e ci allieteremo
con ciò che la grazia ci ha concesso». Aggiunse un po’ di acqua nella pentola e
alzò il fuoco finché la minestra riprese il bollore. Mise del pane raffermo in
un piatto e sparse del sale, poi prese la pentola e appoggiò la mano sopra
l’apertura per non fare uscire, insieme all’acqua, anche il contenuto. L’acqua
bollente uscì fuori e passò sulla sua mano. Gli anziani guardarono nella
pentola e non videro altro che dei sassi. Presentò loro quella zuppa di sassi,
quella zuppa tanto attesa, per la quale litigava vivacemente con la sua pancia,
e che aveva preparato per darle soddisfazione!
Gli anziani
ammirarono il coraggio, la virtù, la pazienza, l’austerità, la sublimità del
suo grado e il merito delle sue azioni. Lodarono Dio che si prende cura dei
suoi, per avere dato ai santi una virtù così potente da renderli superiori al
mondo, perché le cose difficili per loro si fanno facili, perché il fuoco atroce,
contrariamente alla sua natura si fa per loro inoffensivo. La loro costanza è
tale da far loro vincere la natura e innalzarli sopra di essa. Che nostro
Signore e nostro Dio ce ne renda degni, perché possiamo comportarci, nel
monastero dove abitiamo, secondo il disegno della sua misericordia, per la
grazia della sua clemenza e della sua bontà! Amen.
[tratto
da: Rabban Busnaya,
a cura di p. Michele Di Monte, Ed. Praglia]
a cura di p. Michele Di Monte, Ed. Praglia]
Commenti
Posta un commento