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LA NEGLIGENZA


La negligenza è un’insidia terribile nella nostra vita; spesso ci cagiona dei danni e io la considero il nemico che dobbiamo  maggiormente temere. Lo zelo impiegato dall’Anziano Giuseppe per proteggerci, la sua profonda esperienza sui modi perfidi e inestricabili che la negligenza attua per ingannare le sue vittime, mi obbliga a spendere qualche parola su questo avversario.
I Padri la chiamano «accidia», «negligenza» e «pigrizia», termini che hanno tutti il medesimo significato: la morte dell’anima. La negligenza, appartenendo agli otto fondamentali pensieri  malvagi (loghismoi), costituisce un male generale.
Porterò, in modo semplice, qualche esempio che potrà essere  utile alla nostra generazione e che ho appreso dall’esperienza dell’Anziano. Quando lo abbiamo interrogato sulla principale causa dell’insuccesso dell’uomo nel realizzare la sua vocazione spirituale, ci ha risposto che era la negligenza. Un giorno gli ho domandato come mai i Padri dicessero che era la vanità. Egli mi ha risposto: «Sì, anche lei si attacca a noi, ma non a tutti, soltanto a quelli che seduce, e, inoltre, soltanto ad un piccolo numero fra questi. Mentre la vanità corrompe quelli che hanno già accumulato dei tesori, la negligenza invece impedisce anche di cominciare ad ammassarne; questa assomiglia alla sterilità che non produce niente. La vanità nuoce a quelli che già portano frutto, a quelli che sono già progrediti; la negligenza, invece, danneggia tutti: impedisce quelli che vogliono cominciare, ferma quelli che cominciano, impedisce agli ignoranti di imparare, agli erranti di tornare sui propri passi, a quelli che sono caduti di rialzarsi. In generale, la negligenza è un giogo per tutti quelli che imprigiona. Con il pretesto delle necessità naturali e della fatica del combattimento, questa seduttrice si rende credibile; come un’abile manipolatrice, l’accidia ci manovra consegnandoci alla philautìa[1], che è il nemico assoluto. Soltanto l’anima forte che si appoggia sulla fede e sull’esperienza in Dio, può venire a capo di quest’inganno, mentre l’ignorante si libera difficilmente dalla sua rete. Essa tormenta molto i solitari e tutti coloro che evitano di sottomettersi ad una regola, non può però nuocere a dei fratelli che vivono nell’obbedienza e a quelli che compiono una diaconia.
Le cause dell’accidia sono la disperazione, la pusillanimità, il ritiro della Grazia per lungo tempo. Come pretesto, all’inizio, invoca la necessaria “economia”[2] che si deve concedere a motivo di una sedicente malattia o debolezza, e termina nell’incredulità totale, nella sfrontatezza e nell’ingratitudine. Per i solitari che vivono nell’esichia il principio della negligenza è l’inosservanza della regola e la noncuranza dell’ordine della loro vita. Se essi non mettono un buon ordine all’inizio, la situazione può peggiorare rapidamente. Per quelli che vivono in comunità, invece, tutto comincia con i discorsi oziosi e la maldicenza».
Per guarire dalla negligenza, l’Anziano raccomandava di meditare sui fini ultimi, sull’escatologia, nel suo duplice aspetto di ricompensa e di punizione, di Regno dei cieli e di inferno, e di ricordare spesso gli asceti di un tempo. I mezzi che la Grazia mette a nostra disposizione per lottare contro la negligenza sono la preghiera, le lacrime e la fede. L’Anziano evocava anche per noi molti esempi presi dalle vite degli asceti spirituali di altri tempi che, trascinati dalla negligenza avevano perduto i benefici spirituali acquisiti a prezzo di molto ardore e impegno.
«A mio avviso, concludeva l’Anziano, tutte le altre passioni che prendono d’assalto gli asceti non sono che complicazioni della negligenza. Questa, affievolendo l’attenzione, provoca una fessura che permette alle passioni, apparentate e vicine per natura, d’introdursi e di schiavizzare l’uomo».
Per mantenere la nostra vigilanza, ci diceva spesso: «Non siate negligenti, ragazzi miei, per non cadere in mano ai banditi!». Chiamava tutte le occupazioni vane «negligenze», perché considerava che possono provocare la stessa schiavitù. David disse: «Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode» (Sal 120, 3), e altrove: «Se non mediterò la tua legge, perirò nell’umiliazione» (Sal 18, 92).
[tratto da: GIUSEPPE DI VATOPEDI, Giuseppe l’esicasta]



[1] Amore passionale di sé stessi.
[2] “Economia” significa mitigare la regola nelle circostanze personali nelle quali è difficile applicarla in tutto il suo rigore.

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