Il beato Giovanni proveniva dal paese di
Marga, da un villaggio chiamato Helephta[1].
Trascorse il periodo di noviziato monastico presso il convento di san Rabban
Hormizd. Dopo un certo tempo, avendo assolto ai lavori della vita comune e a
quelli che si praticano nella vita di cella, desiderò intensamente andare ad
abitare in un luogo deserto nella montagna, per irrobustirsi contro gli
attacchi violenti e potenti degli spiriti malvagi e per evitare, in questa
lotta, quegli ostacoli causati dai legami con il mondo.
Allora uscì dal convento e si insediò nel
monastero detto Risha [2],
dove aveva risieduto la schiera benedetta dei compagni di Rabban Yôzédeq e di
Rabban Hormizd. Visse molti anni in quel monastero e uscì vittorioso dalle
lotte contro i suoi avversari. La sua intelligenza progredì fino al punto da
elevarsi sopra tutte le contemplazioni divine: nella prima si istruì, nella
seconda progredì, nella quarta e nella quinta conquistò la saggezza [e così di
seguito] finché ebbe raggiunto il principio e la fine, il termine di tutti i
termini in cui non esiste né passato né presente, perché è insondabile,
inaccessibile, incomprensibile.
Dio, che desidera il bene per ogni creatura
razionale, non volle che restasse a lavorare in quel modo, solo per proprio
interesse, ma fece in modo che molta gente fosse soccorsa in lui e per lui. La
grazia lo spinse a tornare al monastero. Ritornò nella cella del convento,
secondo il disegno di colui che lo guidava, il nostro Dio adorabile, divenendo
rifugio per gli oppressi e gli afflitti che ricorrevano a lui. Per mezzo delle
sue mani, il Signore elargì soccorso, prodigi e numerosi miracoli. Fu
fortemente soggiogato dalla grazia che lo elesse capo e direttore di quella
congregazione benedetta. Per molti anni diresse il convento con zelo assiduo e
illuminato, senza trasgressioni né debolezze, nel timore del Signore e fedele
all’ortodossia. Ebbe molti discepoli di cui parleremo più avanti.
Questo beato si elevò e raggiunse il grado [di
perfezione] di san Rabban Hormizd, come raccontò a R. Giuseppe uno dei suoi
discepoli.
Un giorno in cui si intratteneva con i
discepoli parlando dei divini misteri, disse loro: «Conosco un uomo che ha
raggiunto il grado di Rabban Hormizd». Dicendo ciò alludeva a se stesso, perché
era arrivato al grado di perfezione già raggiunto da R. Hormizd.
Rabban Giuseppe raccontava che uno dei
discepoli di quel santo aveva detto che una volta venne a mancare il grano in comunità; R. Giovanni riunì le
bestie da soma e partì per Marga a prendere il grano. Giunto ai piedi della
montagna sulla cui cima era situato il convento che il santo aveva abitato,
disse a chi lo accompagnava: «Aspettatemi qui un momento, vado a vedere la
cella». Mentre lui saliva per la montagna, questi videro una tigre[3]
che scendeva correndo verso di lui e che si accucciò ai suoi piedi, come in
venerazione. Poi si alzò, gli baciò le mani e gli leccò i piedi. R. Giovanni
l’accarezzava sulla testa, le dava delle pacche amichevoli e le diceva:
«Perché, piccola mia, hai lasciato la cella per venire qui?». La tigre corse
davanti a lui mentre salivano. Chi era con il santo, nel vedere un simile
prodigio, fu preso da spavento e ammirazione: allora tutti lodarono il Dio
sublime che aveva restituito a quell’uomo la gloria primitiva, datagli prima
della caduta e la potenza con cui tutta la creazione gli era sottomessa, e che
gli concedeva di vivere pacificamente con le bestie feroci, come all’inizio del
mondo.
Rabban Giovanni aveva un discepolo di nome
Ishô'rahmeh[4]. Costui
raccontò a R. Giuseppe quanto segue.
Ogni tanto, Rabban Giovanni andava verso la
montagna per visitare i santi che abitavano tra le rocce o nel deserto. Come di
consueto, una notte uscì e chiamò quel fratello perché lo accompagnasse fino in
cima, per poi tornare. Mentre
camminavano su un sentiero chiamato Yarbà di Dayvâ[5], il fratello gli disse: «Rabban, ho sete».
Sul pendio del sentiero c’era un cespuglio di hourdaphné[6]. Il santo prese cinque o sei foglie e gliele
diede: «Figliolo, prendi e mangia quest’erba, ti calmerà la sete». Il fratello,
ignaro, mangiò quelle foglie e disse che mai nella sua vita aveva assaggiato
qualcosa di tanto buono, dolce, soave e delizioso. La sete si calmò e ne ebbe
beneficio. Strinse in mano una di quelle foglie per esaminarla alla luce e
vedere che cosa fosse quella pianta dal gusto tanto straordinario. Il santo
indovinò il suo pensiero e gli disse: «Figliolo, mangia la foglia che tieni in
mano, perché quando farà giorno, essa prenderà un gusto amaro». Il fratello
rispose: «Sì, maestro!», ma non la mangiò. Dopo un po’ il santo gli ripeté:
«Figliolo, mangia quella foglia perché sarà amara quando farà giorno». «Sì», ma
non la mangiò. Giunti in cima alla montagna, salutò il santo, si congedò e
tornò alla cella. Al mattino quel fratello si accorse con sorpresa che si
trattava di una foglia di hourdaphné. La assaggiò e immediatamente il gusto
amaro lo penetrò fino al midollo. Allora si pentì di non aver obbedito al santo
e lodò la potenza divina che addolcisce qualunque cosa amara e che, per le
preghiere del santo, aveva reso dolce quell’erba amara, per fare conoscere la
virtù che si cela nei familiari di Cristo nostro Signore.
Rabban Giuseppe aveva un altro discepolo di
nome Yônan. Era suo compagno di cella e lo serviva sempre. Rabban Giuseppe mi
ha riportato le sue parole sul fatto che segue.
Un giorno un cristiano del villaggio di
Babousa andò a trovare R. Giovanni chiedendogli preghiere e parlandogli del suo
stato di indigenza. Questo fratello, eseguendo l’ordine di R. Giovanni, gli
diede qualcosa di quello che aveva per permettergli di continuare il cammino.
Al momento di ripartire, quell’uomo andò di nuovo dal santo e gli disse :
«Non ho niente da dare da mangiare ai miei bambini, che sono piccoli ed è
l’inizio della quaresima. Ti prego, chiedi a Cristo di preparare loro qualcosa
da mangiare». Il santo ebbe pietà di lui e gli disse: «Vai, e quando scenderai
verso il torrente, vedrai una capra selvatica con i due piccoli. Prenderai uno
dei due capretti e lascerai l’altro alla madre». Tutto accadde come il santo
aveva predetto. Ma l’uomo, per avidità, scordò l’ordine del santo, prese i due
capretti e li sgozzò. In quello stesso momento il santo disse al fratello:
«Yônan, figlio mio, quel disperato ha ucciso i due piccoli della capra». Dopo
aver compiuto quel gesto, l’uomo fu preso da un gran terrore. Era scosso,
inquieto, turbato. Prese i due capretti morti e tornò alla cella del santo.
Bussò alla porta. Rabban Yônan uscì e gli disse: «Miserabile, perché hai osato
trasgredire l’ordine del santo?». Lo fece entrare da R. Giovanni e lui stesso
si gettò ai suoi piedi chiedendo pietà per quel miserabile. Rabban disse
all’uomo : «Perché hai osato privare quella capra dei suoi piccoli? Non ti
avevo ordinato di prenderne uno e di lasciargli l’altro?». L’uomo scoppiò in
lacrime e gli disse: «Rabban, ho peccato. Prega per me, perché io sto per
morire e i miei bambini resteranno orfani». Il santo fece su di lui il segno di
croce e lo liberò dalla paura che lo aveva preso; poi lo mandò a casa. L’uomo
lasciò i due capretti sgozzati ai piedi del santo, uscì e se ne andò. La mamma
dei capretti era su una roccia sopra la cella del santo e gemeva. R. Yônan
chiuse la porta e ritornò da R. Giovanni. I capretti erano ancora ai suoi
piedi. Allora il santo stese la mano, fece un segno di croce sulle due bestiole
sgozzate dicendo: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
Che la potenza della Trinità vi risusciti». All’istante i due capretti sgozzati
si alzarono saltellando e raggiunsero subito la madre sulla roccia. Oh, grandezza
della grazia ineffabile donata in Cristo nostro Signore agli uomini che, da
provvisori e mortali, diventano dei, facendo risorgere anche coloro che sono
morti di morte violenta come fossero Dio! In verità la natura umana è stata
innalzata grazie a Cristo a quell’onore sublime che rende gli uomini figli di
Dio, simili a Dio, capaci di compiere come Dio e per Dio tutto ciò che
vogliono. Gloria alla tua bontà, Dio! Sì, gloria alla tua ineffabile bontà che
è stata sparsa su tutti noi dal tuo Figlio prediletto, il nostro Signore Gesù
Cristo. A Lui e allo Spirito Santo, la lode che conviene alla tua gloria! Amen.
[tratto
da: Rabban Busnaya, Ed. Praglia]
[1]
Cfr. nota 46.
[2]
Significa: della « cima» o del «capo». Cfr. J.-B. Chabot, le Livre de la Chasteté ¸ n. 88-90;
106.
[3] O un leopardo, il termine traduce i due
significati.
[4]
Questo nome significa: Gesù è il suo
amico.
[5]
Significa: Sentiero del diavolo.
[6]
Si tratta di un arbusto sempreverde con foglie lunghe due pollici e larghe tre
centimetri. All’esterno hanno gusto amaro.
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