Vi è una fame insaziabile e una
sete inestinguibile di conoscenza di Dio (di teognosia): la nostra tensione è
tutta orientata a raggiungere l’Irraggiungibile, a vedere l’Invisibile, a
conoscere Colui che è al di là di ogni conoscenza. Questo desiderio ardente
cresce incessantemente in ciascun uomo allorché la Luce della Divinità si
compiace di illuminarlo, sia pure accostandosi a lui debolmente, poiché in quel
momento si rivela ai nostri occhi spirituali in quale abisso ci troviamo. Tale
visione riempie di sbigottimento tutto l’uomo; la sua anima, allora, non conosce
riposo né può trovarlo finché non venga completamente liberata dalle tenebre
che hanno pieno potere su di lei, finché non sia riempita del “Cibo che mai
sazia”, finché questa Luce abbondi nell’anima e si unisca talmente ad essa che
Luce e anima diventano una cosa sola, annunciando la nostra deificazione nella
gloria divina.
Gli eventi che abbiamo appena
elencati sono stati attuati dal Signore non nella sua Divinità, ma nella sua
umanità, cioè a quel livello in cui il Signore è ‘consustanziale’ a noi:
«Figlio dell’uomo».
…Non appena gli Apostoli
iniziarono a comprendere la perfezione del loro Maestro e con la bocca di
Pietro lo confessarono come «Cristo, il Figlio del Dio vivente», il Signore
desiderò consolidarli maggiormente in tale conoscenza attraverso la
testimonianza del Padre. Ciò era assolutamente necessario, in quanto Egli ormai
si preparava “all’esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”, ossia
al sacrificio sul Golgota. Dietro le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc
8,29), si celava in quel momento la conoscenza imperfetta in ordine a chi fosse
realmente questo Cristo.
… [Il Signore] presi cin sé i
“prescelti”, Pietro, Giacomo e Giovanni, li condusse “sull’alto monte della
contemplazione della sua gloria divina, “la gloria che egli aveva presso il
Padre prima che il mondo fosse”. Sempre e immutabilmente il Signore portava in
sé la Luce —
essendo, nella sua Divinità, Luce senza-principio —, ma essa in Lui dimorava in
un modo che risultava invisibile a coloro che ancora non l’avevano accolta in
se stessi.
Sul Tabor il Signore pregava.
Niente ci vieta di ipotizzare che, nel suo contenuto, tale preghiera fosse
simile a quella del Getsemani: “è giunta — infatti — la sua ora”. Abbracciando
tutto nell’orazione, “dalla creazione del modo” sino alla fine di questo eone,
il Signore pregava anche per gli Apostoli, perché fosse loro manifestato il
Nome del Padre e l’amore con il quale il Padre ha amato il Figlio rimanesse in
loro (cfr. Gv 17,26).
Questi tre testimoni scelti,
partecipi della straordinaria preghiera di Cristo, si consumarono in essa.
Combattendo asceticamente contro la debolezza della carne, per breve tempo
furono oppressi dal sonno; tuttavia, in virtù della forza dell’orazione
interiore che in essi operava, ritornarono a uno stato di vigilanza e allora,
forti nello spirito, questi vincitori della debolezza della carne videro Cristo
nella Luce ed Elia e Mosè conversare con Lui. Poterono vedere perché essi
stessi, in quell’ora, furono riempiti di Luce. L’eccezionalità e la
magnificenza della contemplazione sprofondarono gli Apostoli in uno stupore
inesprimibile e in una beata incertezza. Lo sappiamo dall’espressione usata
dall’evangelista per Pietro: “Non sapeva quel che diceva”, e dalle parole di
Pietro stesso: “Maestro, è bello per noi stare qui”. Quella nuvola luminosa —
essa non era che Luce e Soffio dello Spirito Santo il quale, con la sua venuta
insostenibile, ha introdotto gli Apostoli nell’universo della Luce increata,
immutabile, senza tramonto, invariabile, infinita, sovraceleste — ha a tal
punto fatto sparire le rappresentazioni delle forme transeunti del mondo di
quaggiù che essi nemmeno Cristo vedevano più secondo la carne (cfr. 2Cor 5,16).
Introdotti dallo Spirito Santo nella contemplazione dell’incircoscrivibile
Divinità di Gesù Cristo, udirono in quell’occasione la voce immateriale e
inaccessibile del Padre: «Questi è il Figlio mio prediletto». Fu questo
l’istante supremo dell’intero avvenimento compiutosi sul Tabor.
[...] Rimanendo fedeli alla
narrazione evangelica e all’esperienza dei Padri della Chiesa, possiamo
affermare quanto segue:
Somma ed eccelsa fu la visione
degli Apostoli sul monte della Trasfigurazione, e tuttavia non era ancora
perfetta, perché non ancora essi erano in grado di accogliere tutta la pienezza
e la perfezione della Luce che a loro appariva. Per questo la Chiesa canta: “Hai mostrato
ai discepoli la tua gloria, nella misura della loro possibilità” o, in un altro
inno: “nella misura della loro capacità ricettiva”.
Somma ed eccelsa fu la visione
degli Apostoli, ma in quel momento fu da essi assimilata in maniera ancora
imperfetta; per questo rimanevano possibili quei tentennamenti cui furono
soggetti nei giorni del Golgota; solo più tardi Pietro si riferisce ad essa
come a una testimonianza della verità (cfr. 2Pt 1,17-18).
Imperfetta era ancora la visione
degli Apostoli sul Tabor e tuttavia era così grande e autentica la
contemplazione della “bellezza sovraessenziale” e del “mistero nascosto da
secoli”, che né la visione di Mosè sul Sinai (cfr. Es 19-20; 23-24) né quella
analoga di Elia sull’Oreb (cfr. 1Re 19) hanno attinto la sua altezza e la sua
perfezione… Rigettate l’ingiusto pensiero secondo cui si tratterebbe di una
sorte riservata soltanto agli eletti, pensiero che può uccidere dentro di voi
la santa speranza… Noi tutti, senza eccezione…, siamo stati chiamati alla
stessa perfezione cui il Signore ha chiamato gli apostoli Pietro, Giacomo e
Giovanni che da Lui sono stati portati sul Tabor: anche noi, infatti, abbiamo
ricevuto i loro stessi comandamenti e non altri e, di conseguenza, la stessa
dignità di vocazione — una dignità uguale alla loro e non una inferiore… Non
solo agli Apostoli è piaciuto al Signore manifestare il “fulgore” della sua
Divinità, ma anche nel corso di tutti i secoli, e fino ai giorni nostri, non ha
cessato né mai cesserà, secondo la sua promessa, di riversare quel medesimo
dono su quanti lo seguono con tutto il cuore.
Oltre alla falsa umiltà…, ostacolo
alla contemplazione della Luce increata è ancora la temeraria propensione a
“vedere Dio” e ad abbracciarlo con il nostro pensiero, come se volessimo
penetrare a viva forza nei misteri e nelle viscere dell’Essere divino e
dominarlo con la mente, quasi si trattasse di un oggetto della nostra
conoscenza.
[...]Quando fissiamo gli occhi
dell’intelletto direttamente sul Sole dell’Essere eterno per vederlo così
com’è, i nostri occhi vengono bruciati e accecati dalla Luce inaccessibile e
abbacinante della Divinità, come si accecano e bruciano i nostri occhi naturali
allorché nudi, senza alcuna protezione, si volgono direttamente al sole. [...]
Il Dio conosciuto e visto rimane invariabilmente al di sopra di ogni conoscenza
e visione. [... ] Quando si presentano i filosofi e gli eretici a sostenere la
possibilità di una piena conoscenza di Dio, i santi Padri, al fine di sradicare
quest’idea insensata, hanno ripreso le immagini e il linguaggio
veterotestamentari: «Poi il Signore disse a Mosè: “Scendi, scongiura il popolo
di non accostarsi a Dio per vedere…”. Il popolo si tenne dunque lontano, mentre
Mosè entrò nella caligine, ove era Dio» (Es 19,21; 20,21). Così… i Padri hanno
fatto ricorso alla nozione di “caligine”, con la quale il saggio legislatore
Mosè tratteneva il popolo, ancora inesperto nella conoscenza di Dio, dalla
stolta esaltazione dell’idea di “capire” Dio; per non deviare, però, dalla
rivelazione neotestamentaria, essi hanno chiamato “supremamente luminosa” una
tale caligine. La vera via che porta alla contemplazione della Luce divina
passa attraverso l’uomo interiore. Chiesi dunque: «Che debbo fare per ereditare
la vita eterna? Mi fu data questa risposta: “Prega come san Gregorio Palamas,
che per anni gridò: ‘Signore, illumina le mie tenebre!’ e fu ascoltato”».
«Una volta che ha conosciuto la Luce , la tua anima, quando ne
verrà privata, si infiammerà per essa; imitando allora san Simeone il Nuovo
Teologo, la cercherà e le griderà:
Vieni, Luce vera.
Vieni, Vita eterna.
Vieni, Rialzarsi dei caduti.
Vieni, Raddrizzarsi di chi giace.
Vieni, Risurrezione dei morti.
Vieni, Re santissimo.
Vieni e abita in noi,
in noi rimani senza interruzione,
in noi Tu solo regna, indivisibilmente,
per i secoli dei secoli. Amìn».
Vieni, Vita eterna.
Vieni, Rialzarsi dei caduti.
Vieni, Raddrizzarsi di chi giace.
Vieni, Risurrezione dei morti.
Vieni, Re santissimo.
Vieni e abita in noi,
in noi rimani senza interruzione,
in noi Tu solo regna, indivisibilmente,
per i secoli dei secoli. Amìn».
[Archimandrita Sofronio Sakharov,
Ascesi e contemplazione, Interlogos
edizioni, 1998]
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