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SALENDO IL MONTE TABOR


Vi è una fame insaziabile e una sete inestinguibile di conoscenza di Dio (di teognosia): la nostra tensione è tutta orientata a raggiungere l’Irraggiungibile, a vedere l’Invisibile, a conoscere Colui che è al di là di ogni conoscenza. Questo desiderio ardente cresce incessantemente in ciascun uomo allorché la Luce della Divinità si compiace di illuminarlo, sia pure accostandosi a lui debolmente, poiché in quel momento si rivela ai nostri occhi spirituali in quale abisso ci troviamo. Tale visione riempie di sbigottimento tutto l’uomo; la sua anima, allora, non conosce riposo né può trovarlo finché non venga completamente liberata dalle tenebre che hanno pieno potere su di lei, finché non sia riempita del “Cibo che mai sazia”, finché questa Luce abbondi nell’anima e si unisca talmente ad essa che Luce e anima diventano una cosa sola, annunciando la nostra deificazione nella gloria divina.
La Trasfigurazione del Signore costituisce un solido fondamento per la speranza di una trasfigurazione dell’intera nostra vita — tutta contrassegnata, ora, da tenti, debolezze, e paure — in una vita incorruttibile e deiforme. Questa salita, tuttavia, sull’“alto monte” della Trasfigurazione è congiunta a una grande lotta. Non di rado ci stanchiamo sin dall’inizio, mentre una certa disperazione sembra dominare l’anima. In simili ore in cui, soffrendo le pene del martirio, restiamo ai confini tra la Luce inaccessibile della Divinità che ci attrae a sé e il minaccioso abisso delle tenebre, dobbiamo richiamare alla mente gli insegnamenti dei nostri Padri, i quali hanno percorso questa stessa via seguendo Cristo… Ricordiamoci [che] nella nostra vita si deve ripetere tutto ciò che si è compiuto nella vita del Figlio dell’uomo. [...] Se il Signore «fu tentato», anche noi dobbiamo attraversare il fuoco delle tentazioni. Se il Signore fu perseguitato, anche noi saremo perseguitati da quelle stesse potenze che perseguitavano Cristo. Se il Signore patì e fu crocifisso, anche noi, inevitabilmente, dobbiamo patire ed essere crocifissi sia pure, forse, su croci invisibili, se realmente seguiamo Lui nelle vie del nostro cuore. Se il Signore fu trasfigurato, anche noi lo saremo fin da quaggiù, sulla terra, se ci rendiamo simili a Lui nei nostri desideri interiori. Se il Signore morì e risorse, anche tutti coloro che credono in Lui passeranno attraverso la morte, saranno deposti in sepolcri e dopo risorgeranno a somiglianza di Lui, perché a somiglianza di Lui sono morti… Se il Signore dopo la sua risurrezione in una carne glorificata salì al cielo e si assise alla destra di Dio, anche noi, con i nostri corpi glorificati, per la potenza dello Spirito santo, saremo assunti in cielo e diventeremo «coeredi di Cristo» e «partecipi della Divinità» (1Pt 4,13). 
Gli eventi che abbiamo appena elencati sono stati attuati dal Signore non nella sua Divinità, ma nella sua umanità, cioè a quel livello in cui il Signore è ‘consustanziale’ a noi: «Figlio dell’uomo».
…Non appena gli Apostoli iniziarono a comprendere la perfezione del loro Maestro e con la bocca di Pietro lo confessarono come «Cristo, il Figlio del Dio vivente», il Signore desiderò consolidarli maggiormente in tale conoscenza attraverso la testimonianza del Padre. Ciò era assolutamente necessario, in quanto Egli ormai si preparava “all’esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”, ossia al sacrificio sul Golgota. Dietro le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29), si celava in quel momento la conoscenza imperfetta in ordine a chi fosse realmente questo Cristo.
… [Il Signore] presi cin sé i “prescelti”, Pietro, Giacomo e Giovanni, li condusse “sull’alto monte della contemplazione della sua gloria divina, “la gloria che egli aveva presso il Padre prima che il mondo fosse”. Sempre e immutabilmente il Signore portava in sé la Luce — essendo, nella sua Divinità, Luce senza-principio —, ma essa in Lui dimorava in un modo che risultava invisibile a coloro che ancora non l’avevano accolta in se stessi.
Sul Tabor il Signore pregava. Niente ci vieta di ipotizzare che, nel suo contenuto, tale preghiera fosse simile a quella del Getsemani: “è giunta — infatti — la sua ora”. Abbracciando tutto nell’orazione, “dalla creazione del modo” sino alla fine di questo eone, il Signore pregava anche per gli Apostoli, perché fosse loro manifestato il Nome del Padre e l’amore con il quale il Padre ha amato il Figlio rimanesse in loro (cfr. Gv 17,26).
Questi tre testimoni scelti, partecipi della straordinaria preghiera di Cristo, si consumarono in essa. Combattendo asceticamente contro la debolezza della carne, per breve tempo furono oppressi dal sonno; tuttavia, in virtù della forza dell’orazione interiore che in essi operava, ritornarono a uno stato di vigilanza e allora, forti nello spirito, questi vincitori della debolezza della carne videro Cristo nella Luce ed Elia e Mosè conversare con Lui. Poterono vedere perché essi stessi, in quell’ora, furono riempiti di Luce. L’eccezionalità e la magnificenza della contemplazione sprofondarono gli Apostoli in uno stupore inesprimibile e in una beata incertezza. Lo sappiamo dall’espressione usata dall’evangelista per Pietro: “Non sapeva quel che diceva”, e dalle parole di Pietro stesso: “Maestro, è bello per noi stare qui”. Quella nuvola luminosa — essa non era che Luce e Soffio dello Spirito Santo il quale, con la sua venuta insostenibile, ha introdotto gli Apostoli nell’universo della Luce increata, immutabile, senza tramonto, invariabile, infinita, sovraceleste — ha a tal punto fatto sparire le rappresentazioni delle forme transeunti del mondo di quaggiù che essi nemmeno Cristo vedevano più secondo la carne (cfr. 2Cor 5,16). Introdotti dallo Spirito Santo nella contemplazione dell’incircoscrivibile Divinità di Gesù Cristo, udirono in quell’occasione la voce immateriale e inaccessibile del Padre: «Questi è il Figlio mio prediletto». Fu questo l’istante supremo dell’intero avvenimento compiutosi sul Tabor. 



[...] Rimanendo fedeli alla narrazione evangelica e all’esperienza dei Padri della Chiesa, possiamo affermare quanto segue:
Somma ed eccelsa fu la visione degli Apostoli sul monte della Trasfigurazione, e tuttavia non era ancora perfetta, perché non ancora essi erano in grado di accogliere tutta la pienezza e la perfezione della Luce che a loro appariva. Per questo la Chiesa canta: “Hai mostrato ai discepoli la tua gloria, nella misura della loro possibilità” o, in un altro inno: “nella misura della loro capacità ricettiva”.
Somma ed eccelsa fu la visione degli Apostoli, ma in quel momento fu da essi assimilata in maniera ancora imperfetta; per questo rimanevano possibili quei tentennamenti cui furono soggetti nei giorni del Golgota; solo più tardi Pietro si riferisce ad essa come a una testimonianza della verità (cfr. 2Pt 1,17-18).
Imperfetta era ancora la visione degli Apostoli sul Tabor e tuttavia era così grande e autentica la contemplazione della “bellezza sovraessenziale” e del “mistero nascosto da secoli”, che né la visione di Mosè sul Sinai (cfr. Es 19-20; 23-24) né quella analoga di Elia sull’Oreb (cfr. 1Re 19) hanno attinto la sua altezza e la sua perfezione… Rigettate l’ingiusto pensiero secondo cui si tratterebbe di una sorte riservata soltanto agli eletti, pensiero che può uccidere dentro di voi la santa speranza… Noi tutti, senza eccezione…, siamo stati chiamati alla stessa perfezione cui il Signore ha chiamato gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni che da Lui sono stati portati sul Tabor: anche noi, infatti, abbiamo ricevuto i loro stessi comandamenti e non altri e, di conseguenza, la stessa dignità di vocazione — una dignità uguale alla loro e non una inferiore… Non solo agli Apostoli è piaciuto al Signore manifestare il “fulgore” della sua Divinità, ma anche nel corso di tutti i secoli, e fino ai giorni nostri, non ha cessato né mai cesserà, secondo la sua promessa, di riversare quel medesimo dono su quanti lo seguono con tutto il cuore.
Oltre alla falsa umiltà…, ostacolo alla contemplazione della Luce increata è ancora la temeraria propensione a “vedere Dio” e ad abbracciarlo con il nostro pensiero, come se volessimo penetrare a viva forza nei misteri e nelle viscere dell’Essere divino e dominarlo con la mente, quasi si trattasse di un oggetto della nostra conoscenza.
[...]Quando fissiamo gli occhi dell’intelletto direttamente sul Sole dell’Essere eterno per vederlo così com’è, i nostri occhi vengono bruciati e accecati dalla Luce inaccessibile e abbacinante della Divinità, come si accecano e bruciano i nostri occhi naturali allorché nudi, senza alcuna protezione, si volgono direttamente al sole. [...] Il Dio conosciuto e visto rimane invariabilmente al di sopra di ogni conoscenza e visione. [... ] Quando si presentano i filosofi e gli eretici a sostenere la possibilità di una piena conoscenza di Dio, i santi Padri, al fine di sradicare quest’idea insensata, hanno ripreso le immagini e il linguaggio veterotestamentari: «Poi il Signore disse a Mosè: “Scendi, scongiura il popolo di non accostarsi a Dio per vedere…”. Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè entrò nella caligine, ove era Dio» (Es 19,21; 20,21). Così… i Padri hanno fatto ricorso alla nozione di “caligine”, con la quale il saggio legislatore Mosè tratteneva il popolo, ancora inesperto nella conoscenza di Dio, dalla stolta esaltazione dell’idea di “capire” Dio; per non deviare, però, dalla rivelazione neotestamentaria, essi hanno chiamato “supremamente luminosa” una tale caligine. La vera via che porta alla contemplazione della Luce divina passa attraverso l’uomo interiore. Chiesi dunque: «Che debbo fare per ereditare la vita eterna? Mi fu data questa risposta: “Prega come san Gregorio Palamas, che per anni gridò: ‘Signore, illumina le mie tenebre!’ e fu ascoltato”».
«Una volta che ha conosciuto la Luce, la tua anima, quando ne verrà privata, si infiammerà per essa; imitando allora san Simeone il Nuovo Teologo, la cercherà e le griderà: 
Vieni, Luce vera.
Vieni, Vita eterna.
Vieni, Rialzarsi dei caduti.
Vieni, Raddrizzarsi di chi giace.
Vieni, Risurrezione dei morti.
Vieni, Re santissimo.
Vieni e abita in noi,
in noi rimani senza interruzione,
in noi Tu solo regna, indivisibilmente,
per i secoli dei secoli. Amìn».

[Archimandrita Sofronio Sakharov, 
Ascesi e contemplazione, Interlogos edizioni, 1998]


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