Il santo digiuno di Cristo
Cristo, che si
è degnato di nascere come uomo, non ricusò neanche di essere tentato come uomo,
affinché il cristiano, ammaestrato dal suo esempio, potesse non essere superato
dal tentatore. Quando l’uomo deve sostenere una simile lotta nella tentazione
sia subito dopo il battesimo, sia anche dopo qualunque periodo di tregua,
bisogna digiunare: affinché il corpo, mortificandosi, sia in grado di portare a
termine la sua lotta e l’anima, umiliandosi, possa impetrare la vittoria.
[…] Ed eccovi
il motivo per cui noi digiuniamo nel tempo che precede la festa della passione
del Signore e il motivo per cui dopo cinquanta giorni (da quella festa) termina
il periodo in cui limitiamo i nostri digiuni. Chiunque vuol fare un vero
digiuno o mortifica la propria anima con fede sincera (Cf. 1 Tm 1, 5) gemendo
nella preghiera e castigando il proprio corpo; oppure, avendo sofferto un certo
impoverimento spirituale di verità e di sapienza a causa delle lusinghe della
carne, si mette in condizione di sentirne nuovamente fame e sete. A quelli che
gli chiedevano come mai i suoi discepoli non digiunassero, il Signore rispose
parlando di ambedue queste specie di digiuno. Della prima specie, quella in cui
l’anima si umilia, disse: “Gli amici dello sposo non possono essere afflitti
mentre lo sposo è con loro. Verranno i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto e
allora digiuneranno” (Mt 9, 15). Della seconda specie di digiuno invece, che
consiste nel nutrire abbondantemente l’anima, disse continuando a parlare:
“Nessuno cuce un pezzo di panno nuovo su un abito vecchio, perché lo strappo
non diventi maggiore; né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti gli
otri si rompono e il vino si versa; ma si mette vino nuovo in otri nuovi, cosi
l’uno e gli altri si conservano” (Mt 9, 16-17). Quindi poiché lo sposo ora ci è
stato tolto, certo noi, amici di quel bello sposo, dobbiamo essere afflitti.
Infatti il più bello d’aspetto tra i figli dell’uomo, sulle cui labbra era
diffusa la grazia (Cf. Sal 44, 3), tra le mani dei persecutori non ebbe né
grazia né bellezza e la sua vita fu tolta dalla terra (Cf. Is 53, 2, 8). E il
nostro pianto è sincero se siamo accesi d’amore verso di lui. Fortunati coloro
ai quali fu concesso di averlo davanti a loro prima della sua passione, di
interrogarlo su ciò che volevano, di ascoltare quanto dovevano da lui
ascoltare. I loro padri, prima della sua venuta, desiderarono vedere quei
giorni e non li videro, perché erano stati destinati ad un altro compito:
essere i suoi profeti, non i suoi ascoltatori. Di loro parla Gesù quando dice
ai suoi discepoli: “Molti giusti e molti profeti desiderarono vedere quello che
voi vedete e non lo videro; udire quello che voi udite e non lo udirono” (Mt
13, 17). In noi invece si è adempiuto quanto ugualmente Gesù disse: “Verrà un
tempo in cui desidererete vedere uno solo di questi giorni e non potrete
vederlo” (Lc 17, 22).
Chi non brucia
della fiamma di questo santo desiderio? Chi non piange? Chi non si rattrista
gemendo? Chi non dice: “Le mie lacrime sono il mio pane giorno e notte mentre
mi dicono sempre: dov’è il tuo Dio?” (Sal 41, 4). Noi crediamo infatti in lui
che è già glorioso alla destra del Padre; tuttavia finché viviamo in questo
corpo siamo pellegrini lungi da lui (Cf. 2 Cor 5, 6) e non possiamo mostrarlo a
quelli che dubitano di lui o lo negano e dicono: “Dov’è il tuo Dio?”.
Giustamente il suo Apostolo desiderava morire per essere con lui e pensava che
il rimanere nella carne non era cosa migliore per lui ma necessaria per noi
(Cf. Fil 1, 23-24). “Timidi sono i pensieri dei mortali e poco stabili i nostri
disegni” (Sap 9, 14); poiché la nostra dimora terrena grava l’anima nei suoi
molti pensieri (Sap 9, 15). Per questo “è una lotta la vita dell’uomo sulla
terra” (Gb 7, 1) e nella notte di questo mondo il leone si aggira cercando chi
divorare (Cf. 1 Pt
5, 8): non il leone della tribù di Giuda, il nostro re (Cf. Ap 5, 5), ma il
leone diavolo, nostro avversario. Il nostro re, condensando nella sua persona
le figure dei quattro animali dell’Apocalisse di Giovanni, nacque come uomo,
operò come leone, venne sacrificato come vitello, volò come aquila (Cf. Ap 4,
7). Si librò sulle ali dei venti e fece delle tenebre un velame per sé (Sal 17,
11-12). Egli distese le tenebre e si fece notte e in essa s’aggirano tutte le
fiere della selva (Cf. Sal 103, 20). I leoncelli ruggiscono, cioè i tentatori
attraverso i quali il diavolo cerca di divorare; tuttavia non hanno potere se
non sopra coloro che riescono a prendere. Lo stesso Salmo così continua: “e
chiedono a Dio il loro cibo” (Sal 103, 21). Nella notte di questo mondo, così
pericolosa e così piena di tentazioni, chi non teme, chi non paventa nel più
profondo di se stesso di venir giudicato degno di essere abbandonato nelle
fauci di un nemico tanto crudele per essere divorato? Per evitare questo è
necessario digiunare e pregare.
Tanto maggiore
e tanto più frequente deve essere il nostro digiuno, quanto più si avvicina la
solennità della passione del Signore. Con questa celebrazione annuale in certo
modo si rinnova in noi la memoria di quella notte; evitiamo così di
dimenticarcene, evitiamo che quel divoratore ruggente ci trovi addormentati non
nel corpo ma nell’anima. La stessa passione del Signore infatti che cos’altro
anzitutto ci insegna, nelle vicende del nostro capo Cristo Gesù, se non che
questa vita è una tentazione? Per questo, quando ormai si stava avvicinando il
tempo della sua morte, Cristo disse a Pietro: “Satana ha chiesto che gli foste
consegnati per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, Pietro,
affinché la tua fede non venga meno; va’ e conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,
31-32). E difatti poi Pietro ci ha confermato nella fede con la sua attività
apostolica, con il suo martirio, con le sue lettere. In una di queste lettere
ci esorta anche a temere assai questa notte di cui sto parlando e ci ha
insegnato a vigilare guardinghi alla luce consolante delle profezie, come di un
lume nella notte: “Noi teniamo come più ferma – dice – la parola dei profeti,
alla quale fate bene a prestare attenzione, come a lampada che splende in un
luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non si levi nei vostri cuori la
stella del mattino” (2 Pt
1, 19).
Teniamo dunque
i fianchi cinti e le lucerne accese, e siamo come quegli uomini in attesa del
ritorno del loro padrone dalle nozze (Cf. Lc 12, 35-36). Non diciamoci
vicendevolmente: “Mangiamo e beviamo perché domani moriremo” (1 Cor 15, 32). Ma
proprio perché è incerto il giorno della morte e penosa la vita, digiuniamo e
preghiamo ancor più: domani infatti moriremo. “Un poco – disse Gesù – e non mi
vedrete un poco ancora e mi vedrete” (Gv 16, 19). Questo è il momento di cui ci
disse: “Voi sarete nell’afflizione mentre il mondo godrà” (Gv 16, 20); cioè:
questa vita è piena di tentazioni e noi siamo pellegrini lungi da lui (Cf. 2
Cor 5, 6). “Ma io vi vedrò di nuovo – aggiunse – e ne gioirà il vostro cuore e
nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16, 22). Godiamo anche ora in
questa speranza, nonostante tutto – poiché è fedelissimo chi ce lo ha promesso
– nell’attesa di quella sovrabbondante gioia, quando saremo simili a lui,
perché lo vedremo così come egli è (Cf. 1 Gv 3, 2), e nessuno ci potrà togliere
la nostra gioia (Cf. Gv 16, 22). Di questa speranza abbiamo anche ricevuto il
pegno amabile e gratuito dello Spirito Santo (Cf. 2 Cor 1, 22), il quale emette
dai nostri cuori gemiti inenarrabili di santi desideri (Cf. Rm 8, 26). “Abbiamo
concepito infatti – dice Isaia – e abbiamo partorito lo spirito di salvezza”
(Cf. Is 26, 18). E “la donna quando partorisce – dice il Signore – è nel dolore
perché è giunta la sua ora; ma quando ha partorito si fa grande festa perché è
venuto al mondo un uomo” (Cf. Gv 16, 21). Questa sarà la gioia che nessuno
potrà toglierci (Cf. Gv 16, 22). Con questa gioia saremo immersi, dalla vita
presente nella quale dobbiamo concepire la fede, alla luce eterna. Ora dunque
digiuniamo e preghiamo, perché è il tempo del parto.
Questo sta
facendo l’intero corpo di Cristo che è diffuso per tutto il mondo, cioè la Chiesa intera, quell’unità
che nel Salmo prega: “Dai confini della terra ti invoco, col cuore prostrato
nel dolore” (Sal 60, 3). Di qui ci si manifesta già chiaramente perché sia
stato istituito un tempo sacro di quaranta giorni destinato a questa
umiliazione. Colei infatti che invoca Dio dai confini della terra col cuore
prostrato dal dolore lo invoca dalle quattro parti del mondo, nominate spesso
anche dalla Scrittura: oriente, occidente, settentrione e mezzogiorno. Per
tutta l’estensione di queste quattro parti del mondo è stato promulgato quel
decalogo della legge, che ora non si deve soltanto temere osservandolo nella
lettera, ma che si deve adempiere con la grazia della carità. Sappiamo che
quattro per dieci fa quaranta. Ma ancora ci troviamo nella fatica della
tentazione, nella necessità del perdono dei peccati. Chi può infatti adempiere
perfettamente il comandamento: Non desiderare (Es 20, 17)? Perciò è necessario
digiunare e pregare, senza smettere di fare le opere buone. Di questo lavoro
verrà data alla fine la paga, che nel Vangelo viene chiamata denario (Cf. Mt
20, 2-13). Come il ternario prende nome dal numero tre, il quaternario dal
numero quattro, così il denario dal numero dieci. Questo denario unito al
numero quaranta ci vien reso come ricompensa della nostra fatica. Il numero
cinquanta simboleggia il tempo di quella gioia che nessuno potrà toglierci (Cf.
Gv 16, 22). In questa vita ancora non ne abbiamo il pieno possesso; tuttavia lo
celebriamo nelle lodi del Signore col canto dell’Alleluia per cinquanta giorni
dopo la solenne celebrazione della passione del Signore, a partire dal giorno
della risurrezione; durante quei giorni diminuiamo i nostri digiuni.
Ora dunque,
carissimi, in nome di Cristo vi esorto a propiziarvi Dio con digiuni
quotidiani, elemosine più generose, preghiere più fervorose, perché non veniate
circuiti da satana.
[…] Quaranta
giorni digiunò Mosè, autore della legge (Cf. Es 24, 18), quaranta giorni Elia,
il più grande dei profeti (Cf. 1 Sam. 19, 8), quaranta giorni il Signore stesso
(Cf. Mt 4, 2), testimoniato dalla legge e dai profeti. Perciò si mostrò sul
monte con questi due personaggi (Cf. Mt 17, 3). Noi, benché non possiamo
sostenere senza interromperlo un digiuno così lungo, così da non prendere
nessun alimento per tanti giorni e tante notti come hanno fatto essi, almeno
facciamolo secondo le nostre forze; in maniera che, esclusi quei giorni nei
quali per motivi determinati la tradizione della Chiesa proibisce di digiunare,
possiamo diventare graditi al Signore nostro Dio con un digiuno quotidiano o
almeno frequente.
S. Agostino, Discorso
210, 2-7
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